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Africa in Italia

Leonardo De Franceschi, UNIVERSITÀ ROMA TRE

Negli ultimi anni si è notevolmente arricchita la riflessione critica sul cosiddetto cinema italiano dell’immigrazione, grazie soprattutto al contributo offerto dagli italianisti.

Per conto mio, in questa sede, una volta individuato il comune orizzonte di riferimento nei film che evidenziano segni di presenza ascrivibili a soggetti africani o afrodiscendenti, nei termini di un’agency diegetica (leggasi personaggi) e/o operativa (leggasi cineasti), ritengo produttivo ai fini della mia analisi compiere una doppia operazione di taglio. Anzitutto, prenderò in esame esclusivamente titoli realizzati dal 1989 in avanti, convenendo con molti analisti sul carattere periodizzante di quest’anno, non solo per ovvie ragioni di politica internazionale ma anche e soprattutto per le ricadute interne di due eventi chiave come l’omicidio di Jerry Masslo e l’approvazione del primo decreto legge in materia d’immigrazione, che segnano simbolicamente il passaggio dell’Italia da terra di (non troppo lontana) emigrazione a meta e crocevia di traiettorie migratorie che partono dal sud del Mediterraneo e dall’est Europa[1], e quindi la rimessa in circolo e la riconfigurazione di vecchi fantasmi e luoghi dell’immaginario coloniale sull’Africa; in secondo luogo, concentrerò la mia attenzione sullo snodo dell’attorialità, escludendo ogni considerazione sui segni di soggettività espressi da registi e da altre tipologie di cineasti africani o afrodiscendenti.

In altri termini, identificando come potenziale corpus di riferimento l’insieme dei film prodotti in Italia a partire dal 1989, nei quali sia presente almeno un attore o un ruolo di africano o afrodiscendente – siamo nell’ordine di ben oltre trecento lungometraggi di finzione, comprese coproduzioni minoritarie e titoli non contemplati dall’Archivio del Cinema Italiano anica ma presenti in altri database – ciò che mi propongo, attraverso un’analisi sintomatica d’ispirazione postcoloniale, basata su un’interpretazione tendenziosa della nozione di politica degli attori, è di analizzare le strategie che hanno contraddistinto, appunto, certo cinema italiano post-1989 (quello di interesse africano e diasporico[2], per intenderci). Si tratta quindi di riarticolare l’accezione originaria di Luc Moullet (1993), leggendo la politique mutuata a sua volta dalla definizione dei Cahiers du cinéma alla luce della politics su cui insiste tanta riflessione nei film studies di matrice postcoloniale, in modo da includervi tanto l’agency e l’autorialità degli attori, quanto le strategie di casting e direzione attoriale operate in un determinato film e riconducibili a una soggettività/autorità, sempre multipla e negoziale, che oscilla tra i due poli dominanti del produttore e del regista[3].

Una critica dei modi di rappresentazione attenta anche alla sfera dei modi di produzione ed espressione non può sottovalutare l’impatto della politica degli attori nei processi di costruzione della semiosi fil-mica, secondo il modello inaugurato da Shohat e Stam[4]. In altri termini, quando analizziamo un titolo riconducibile a una nozione estesa di cinema interculturale (v. Heffelfinger e Wright, 2010) – che configuri nei fatti[5] sul piano intra (leggasi mondo diegetico) o extratestuale (leggasi modi di produzione) l’incontro di soggetti espressione di diverse culture, svolgentesi in un paese d’accoglienza o transito di flussi migratori (in questo caso, preferisco il termine, più specifico, di cinema della convivenza) o in un paese d’origine di questi flussi –, dobbiamo cominciare a chiederci quale tipo d’interpreti vengono scelti per incarnare i personaggi di migranti o residenti non-italiani, nel caso che ci interessa. Le molteplici soluzioni a disposizione – interprete italiano vs. non-italiano d’origine, non-italiano non-professionista vs. professionista, non-italiano professionista locale vs. importato – producono una serie di ricadute molto precise sulle concrete condizioni della performance, indirizzando una prestazione nel segno della recitazione immedesimata o mimetica, come dire, nella costruzione di un personaggio romanzesco piuttosto che nella restituzione di un tipo esemplare.

La mia ipotesi di lavoro è che la politica degli attori egemonica nei film italiani post-1989 d’interesse africano e diasporico, ancorché giustificata, nei singoli casi, da esigenze di ordine produttivo o simbolico, abbia generato precise ricadute sul sistema di sapere-potere dominante, contribuendo a consolidarlo, e ritardando inoltre l’ampliamento di un parco attori d’origine non italiana

È il casting, bellezza!

Vorrei partire da un film-caso paradigmatico, ancorché ben precedente all’arco temporale preso in esame, cioè Queimada (Gillo Pontecorvo, 1969). Non essendo questo il luogo per formulare un’analisi articolata del tessuto simbolico e stilistico, mi limito a suggerire che il carattere ideologicamente ambiguo e irrisolto del film – l’intreccio è incentrato su una rivolta di schiavi che ha luogo in un’isola immaginaria dei Caraibi intorno alla metà del xix secolo – è rinvenibile anche nella costruzione dei caratteri e nella politica degli attori. Basti pensare alla fisionomia del meticcio Teddy Sanchez, fortemente debitrice dello stereotipo del tragic mulatto (v. Bogle, 2002, p. 9) e complicata ulteriormente dalla scelta di un interprete bianco e italiano come Renato Salvatori che recita in blackface. Shohat e Stam hanno inoltre opportunamente messo in evidenza come l’opzione di un interprete non professionista per il ruolo di José Dolores (Evaristo Márquez[6]), il leader nero della rivolta manipolato dall’agitatore William Walker (Marlon Brando), abbia fortemente impattato sull’economia simbolica e patemica del film, predeterminando le difficoltà dell’interprete non professionista e gli esiti del processo di identificazione spettatoriale:

Facendo misurare uno dei più carismatici attori del Primo Mondo con un attore non professionista del Terzo Mondo completamente inesperto, scelto solo per la sua fisionomia, Pontecorvo, mentre per un verso sovverte lo star system, per l’altro sbilancia disastrosamente l’equilibrio della fascinazione spettatoriale in favore del colonizzatore, in un film la cui intenzione didattica, ironicamente, era di sostenere la lotta anticoloniale (p. 188).

La ricca aneddotica fiorita intorno al film ha prodotto inoltre una messe di testimonianze che concordano sull’assoluta inadeguatezza di Márquez[7], che pure non gli ha impedito di tornare, sia pure sporadicamente, su un set[8].

Si dirà, la storia del cinema è costellata di capolavori che giocano sulla compresenza di attori di diversa provenienza e non professionisti e autori massimi come Sergej M. Ejzenštejn e Jean Renoir hanno lavorato molto proficuamente in questa direzione, prima ancora che lo facessero i maestri del neorealismo. Eppure, lo stesso André Bazin, che pure non manca di identificare nell’amalgama uno dei tratti più riconoscibili e significativi della scuola italiana della Liberazione, già nel 1948 sottolinea come la neorealista «negazione del principio della vedette e l’utilizzazione indifferente di attori di mestiere e di attori occasionali […] contiene sfortunatamente in se stesso il proprio principio di distruzione»: questi secondi, infatti, «nella misura in cui l’inesperienza e l’ingenuità sono fattori indispensabili, […] non resistono all’uso» (1986, pp. 283-284)[9].

Che il cinema interculturale di produzione italiana, da diversi studiosi ricondotto a una matrice neorealista, sia caratterizzato dall’uso d’interpreti non professionisti in ruoli anche centrali, è dato di una certa evidenza. Diversi di questi interpreti hanno ottenuto premi, ma per quasi tutti – dal Thywill Amenya di Pummarò (Michele Placido, 1990) alla Kalubi Kabongo di Dall’altra parte del mondo (Arnaldo Catinari, 1993), dal Mounir Ouadi di Riparo (Marco Simon Puccioni, 2007) al Said Sabrie di Good morning Aman (Claudio Noce, 2009) – si è trattato di un’esperienza unica e irripetuta, almeno ad oggi.

Molti di loro, per giunta, si sono trovati sul set a confrontarsi con interpreti italiani affermati: Amelia con Pamela Villoresi, Kabongo con Massimo Girotti, Ouadi con la portoghese Maria De Medeiros e la slovacca naturalizzata italiana Antonia Liskova, Sabrie con Valerio Mastandrea. Potrei citare numerosi casi analoghi di casting asimmetrico, sul modello evocato di Queimada, in cui il principio baziniano dell’amalgama viene declinato a senso unico, indipendentemente dal pedigree dei registi, dal configurarsi di questi film come esperienze autoriali o di genere, dal loro essere ambientati in Italia (i recenti Terraferma [fig. 1] e Il villaggio di cartone [fig. 2]) o in Africa (penso a Nel continente nero o a Un altro mondo).

Quali che possano essere le strategie d’impaginazione audiovisiva e sintattica dispiegate dal regista per compensare il deficit di formazione dell’attore non professionista, rimane il fatto che l’interprete in questione ha avuto meno strumenti per affrontare il proprio compito rispetto alla sua controparte italiana, dovendo per giunta fare i conti con un pubblico che lo osserverà necessariamente calandosi nella prospettiva di un personaggio/attore italiano, a maggior ragione se si tratta di uno dei suoi beniamini[10]. Ci sono le condizioni perché si possa parlare di un complesso di Evaristo, con la stessa logica con cui altrove si è evocato, sulla scia della shakesperiana Tempesta, un complesso di Calibano.

Per quale motivo, verrebbe da chiedersi, tanti registi e produttori italiani, quando si tratta di attribuire il ruolo di un personaggio di migrante (o non-italiano), anche da protagonista[11], fanno ricorso spesso a non professionisti? Forse perché costano meno? Perché, trattandosi in larga parte di tipi sociali, tutto sommato possono essere alla portata anche di attori presi dalla strada? Del resto, professionisti o meno, gli interpreti dei ruoli di migranti vengono selezionati sulla base del medesimo principio, vale a dire il typecasting. Secondo Pitassio, «con questa definizione si intende la distribuzione delle parti sulla base delle caratteristiche fisiognomiche degli attori. Una parte dell’organizza-zione poggia sull’attribuzione di valori morali a tratti somatici» (2003, p. 52). Ma quando un regista o un produttore identificano il ruolo del migrante come tipo fisiognomico, riconoscibile per pochi tratti non passibili di mutamento significativo, mentre i ruoli dei nativi vengono ricondotti alla matrice antitetica di personaggio romanzesco, «definito da una molteplicità di tratti che sono rivelati solo gradualmente nel corso della narrazione» (Dyer, 2004, pp. 21-22), s’introduce uno scarto che impatta sull’intero sistema delle rappresentazioni, così da farci riconoscere il typecasting come pratica politica (v. Robertson Wojcick, 2004, pp. 169-189). Pensare il corpo semiotico del personaggio migrante come segno di una diversità in qualche modo ontologica significa relegarlo a un regime di apartheid epistemico e immobilizzarlo, reificato, nella falsa verità del senso comune, rafforzando i confini dello spazio sociale. Dyer, citando Klapp, ricorda come «gli stereotipi sono coloro che non appartengono, che sono al di fuori della propria società […]. Decidere chi appartiene e chi no a una data società nel suo insieme è quindi una funzione del potere relativo, dei gruppi all’interno di quella società, di definire se stessi come centrali e ciò che resta come ‘altro’, periferico o escluso» (2004, p. 23).

Una volta assunta come naturale l’opzione dell’interprete preso dalla strada, ne discenderà una strategia di selezione all’insegna del più meccanico typecasting, con la pubblicazione di un annuncio di casting (breakdown) dalla terminologia inequivocabile:

 

CAST AFRICANI:

– Bellissimo nero di 25>35 anni;

– Ragazza nera dalla bellezza primordiale di 18>30 anni;

– Uomo nero 30>35 anni, decoroso, consapevole, autorevole (modello Obama)[12].

Stante la riduzione del ruolo a tipo, quand’anche invece venga scritturato un attore o attrice professionista, il rischio di uno scarto differenziale nella costruzione delle persone filmiche risulta tutt’altro che diminuito. Sì, perché il cinema italiano post-1989 d’interesse africano e diasporico non vive evidentemente di soli non professionisti, anzi. In numerosissimi titoli è attestata la presenza di ruoli di non-italiani interpretati da attori e attrici di mestiere. Eppure, quando, come detto, il compito assegnato si riduce alla restituzione di un tipo sociale, se è vero che, come osserva Vicentini, «mentre le tecniche dell’immedesi-mazione permettono agli attori di creare i personaggi come individui, le tecniche dell’imitazione tendono a produrre figure che sono tipi esemplari di una o più classi di umanità» (2007, p. 142), per un interprete la tentazione di comprimere la performance verso una pratica puramente imitativa, basata su cliché disforici, tendente alla caratterizzazione parodica e finanche macchiettistica, può diventare difficile da resistere, come poi si vedrà per il caso emblematico di Hassani Shapi. Diversi analisti hanno sottolineato le dinamiche di alterizzazione e abiezione che il cinema italiano ha riservato al corpo dei migranti, sulla base di una strategia ambivalente basata su meccanismi di erotizzazione ed esclusione; dinamiche queste, che hanno investito tanto i soggetti femminili (generando una proliferazione di corpi oggetti di desiderio/ripulsa e spesso schiacciati sul cliché della prostituta)[13], quanto i soggetti maschili (assimilati a una zona grigia tra invisibilità sociale e illegalità e sovente ridotti allo stereotipo del malavitoso)[14].  

Alla fine è una questione di pelle

Se, come osserva Zambenedetti, le due tendenze più rilevanti del cinema dell’immigrazione italiano si possono ridurre a due sottofiloni epidermici, vale a dire, prosaicamente, storie di migranti dalla pelle scura (negri e marocchini) e dalla pelle chiara (slavi e albanesi) (2010, p. 11), questo accade anche perché, seguendo un sentire peraltro diffuso, lo spettatore medio italiano si accontenta di riconoscere a colpo d’occhio l’appartenenza razziale del personaggio migrante, mentre per quanto concerne l’identità etnica tende ad associare l’attore al ruolo, senza stare troppo a sottilizzare.

Basta prendere il caso dei personaggi nordafricani (marocchini), per rendersi conto come, sul piano rappresentazionale, la loro identità etnica, pur riferita spesso a un paese specifico del Maghreb o del Mashreq, si trovi, grazie a un casting disinvolto, ad essere assorbita in un’area geografica dai confini nebulosi, come a tradire una sorta di orientalismo di ritorno. Accade così che marocchini passino sullo schermo per algerini (penso a Mohamed Miftah in L’articolo 2) o tunisini per marocchini (Ahmed Hafiene in La straniera), che per libiche passino israeliane (Moran Atias in Le rose del deserto) come per siriani degli egiziani (Amr Waked in Il padre e lo straniero).  

Perché allora, stante la scarsa attenzione del pubblico per la corrispondenza etnica tra maschera e volto, si chiederanno tanti registi e produttori italiani, quando si tratta di scegliere l’interprete per il ruolo di un migrante o non-italiano bianco, scomodarsi a fare provini lunghi e dispendiosi, magari all’estero[15], quando basta prendere un attore italiano, magari non professionista, impostare la sua performance su una prospettiva di mimetismo socio-fisico e farlo passare per straniero? Penso al caso emblematico di Giovanni Martorana (recidivo, prima maghrebino per La meglio gioventù e poi tunisino per Io, l’altro[16]), a Marcello Sambati (tunisino per Due come noi, non dei migliori), a Valeria Solarino (saudita in Italians)[17]. Per queste operazioni spregiudicate di politica degli attori, più numerose se ci allarghiamo all’ambito dei personaggi di migranti o stranieri non africani, potremmo forse parlare di ethnoface, per analogia con la tradizione statunitense del blackface[18].

Se queste discutibili pratiche di casting rafforzano l’immaginario di un pubblico ancora troppo restio a fare i conti con il proprio passato coloniale, affezionato a un rozzo binarismo cromatico che continua a negare al soggetto migrante il marchio della pluralità, per dirla con Albert Memmi, le soluzioni che negli anni si sono prospettate ai registi e produttori italiani interessati a rivolgersi a un interprete professionista per la copertura di un ruolo di migrante o cittadino africano o afrodiscendente sono state due: la scrittura di attori attivi all’estero oppure d’interpreti locali (nati da coppie miste, di seconda generazione o d’immigrazione recente).

La soluzione di ricorrere a professionisti stranieri, che possiamo considerare virtuosa sul piano di una politica degli attori, ha prodotto film di rilievo, ancorché a ragione valutati in modo controverso da molta critica, come L’assedio (Bernardo Bertolucci, 1998: con Thandie Newton e David Thewlis) e Bianco e Nero (Cristina Comencini, 2008: con Aïssa Maïga ed Eriq Ebouaney). Ponendoci il problema di un’industria italiana del cinema all’altezza dei suoi compiti interculturali, non possiamo non preferire tuttavia la seconda soluzione, che sta consentendo sia pure lentamente l’emergere di un primo movimento di attori e attrici accentati (v. Scego 2011), molti dei quali appunto afrodiscendenti, nati in Italia o qui cresciuti oppure ancora lungo residenti e magari cittadini acquisiti. Difficile già censirli, figurarsi descriverli come una generazione, visto che, a volerne menzionare alcuni tanto per mappare velocemente questo movimento, il più maturo ha superato i cinquanta (l’italo-somalo Jonis Bascir, classe 1960, attivo soprattutto nella fiction e a teatro, oltre che musicista) e la più giovane ha da poco passato i venti (Ons Ben Raies, tunisina di 22 anni ma in Italia da bambina, con all’attivo già due titoli, Il segreto di Rahil e Balla con noi). Alcuni sono arrivati a conquistare una certa notorietà in Italia dopo diversi anni di onorato servizio tra grande, piccolo schermo e teatro nel loro paese d’origine: è il caso di Ahmed Hafiene, tunisino classe 1966 e naturalizzato italiano, lanciato da Carlo Mazzacurati con La giusta distanza nel 2007. Altri ancora si sono affermati lentamente, approfittando delle prime timide aperture dell’industry alla metà degli anni Novanta, come Hedy Krissane (tunisino naturalizzato italiano, classe 1971, attivo anche come regista) e Juliet Esey Joseph (nigeriana naturalizzata italiana, nata nel 1974, attrice feticcio dei fratelli Manetti), Djibril Kébé (senegalese di Kebemer, nato nel 1975, lanciato da Vittorio De Seta in Lettere dal Sahara). Alcuni si sono fatti conoscere soprattutto grazie alla televisione (come il 32enne Livio Beshir, di padre egiziano-americano e madre italiana, passato per una serie di esperienze teatrali significative) o alla danza (penso all’italo-somalo Guido Branca, classe 1988 ma già maestro di breakdance e hip hop). Molti hanno un curriculum accademico di tutto rispetto (il 28enne Germano Gentile, di natali brasiliani, diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia e già diversi premi per il suo ruolo in Et in terra pax) e – mi riferisco a una serie di attrici fra i trenta e i quaranta – una formazione e un background teatrale ricchi, che paradossalmente ne hanno rallentato l’affermazione, pur permettendo loro di lavorare con una certa continuità, tra palcoscenico e piccolo schermo: alcune, come l’italo-beninese Esther Elisha, hanno saputo sfruttare al meglio l’opportunità di un ruolo importante (quello della prostituta Suad nel pluripremiato Là-bas), altre, come l’italo-algerina Emanuela Garuccio (coprotagonista de Il mercante di stoffe), ha avuto meno fortuna, altre ancora, come l’afro-anglo-italo-ispana (così si autodefinisce) Laura Sampedro e l’italo-etiope Caterina Deregibus, sono ancora alla ricerca della prima grande occasione di valorizzazione su un set cinematografico.

D’altra parte, i rari interpreti afrodiscendenti italiani che si sono affacciati alla scena negli anni Ottanta hanno avuto se possibile ancora più problemi ad essere messi alla prova del grande schermo e maggiormente a lavorarvi con continuità, ripiegando, magari con convinzione, verso il palcoscenico e la fiction, per non parlare degli attori e soprattutto delle attrici afrodiscendenti emerse nei primi anni Settanta, confinate ben presto a riconfigurare vecchi fantasmi esotico-erotici in piena stagione di femminismo militante – penso a Ines Pellegrini, solo per citare il caso più in odore di revisione storiografica – e dei veri e propri pionieri emersi fra anni Cinquanta e Sessanta.

I rari exploit e i primi segnali di crescita di un movimento qui evocati non devono farci dimenticare, in una fase di crisi finanziaria pesante in tutto il comparto industriale delle performing arts, la realtà di un sistema in cui gli attori e le attrici di origine africana fanno tuttora un’enorme fatica ad esprimere il proprio talento, e ancor più ad affinare le proprie doti, lavorando in continuità. Voglio menzionare il caso limite di due percorsi caratterizzati da una distinta e per certi versi antitetica politica del trattino, cioè da una diversa strategia di negoziazione della propria origine.

Mi riferisco a due interpreti, di origini rispettivamente keniota (Has- sani Shapi) e tunisina (il citato Hafiene) le cui doti performative hanno avuto diverse occasioni di valorizzazione, ma che hanno dovuto compiere scelte critiche per consolidare la propria posizione all’interno dell’industry. Il primo, nato a Mombasa nel 1973, attivo in Inghilterra tra serie tv e cinema già dal 1992, e presente nel cast di blockbuster internazionali come Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma e Il mondo non basta, per arrivare al pubblico del grande schermo italiano, ha portato avanti una politica degli attori da virtuoso della performance transetnica, imponendosi, anche in virtù delle sue peculiari caratteristiche somatiche da southern everyman, come caratterista disponibile per ruoli di italiano (nella serie tv Il maresciallo Rocca), clandestino (Il nostro matrimonio è in crisi), pakistano (Femmine contro maschi, Nessuno mi può giudicare, Il giorno in più), indiano (Senza arte né parte), egiziano (Sharm El Sheikh). Il rischio per Shapi, evidente in performance orientate da una regia disinvolta verso una mimesi macchiettistica e alterizzante (penso al dittico Lezioni di cioccolato [fig. 3] e a Oggi sposi) è quello di vedersi confinata la propria carriera, almeno in Italia, nel recinto angusto di una mimicry guittesca, culturalmente regressiva, sempre più soffocata da cliché e stereotipi.

Quanto a Hafiene, scelto da Marco Turco nel 2004 per il ruolo da coprotagonista de La straniera[19], ha spesso scontato la propria difficoltà a misurarsi con una presa diretta o un doppiaggio senza accento – richiesti per ragioni di economia simbolica già in La straniera e poi in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (Isotta Toso, 2009, fig. 4) – e, stante il suo ancora insufficiente potere contrattuale, non ha potuto opporsi efficacemente a che, come nei due titoli citati, anche nella versione per le sale di Io sono con te (Guido Chiesa, 2010) e nella miniserie tv L’ombra del destino (Pier Belloni, 2011) il suo volto arrivasse al pubblico sovrapposto alla voce di un attore italiano[20].

So what?

Come superare le criticità emerse da quest’analisi sintomatica sulla politica degli attori dominante nel cinema italiano post-1989 d’interesse africano e diasporico? Anzitutto, facendo chiarezza sul piano epistemologico. Ogni arroccamento a difesa di posizioni nativiste ed essenzialiste risulterebbe sterile, anzitutto perché, con Hall, non si può non convenire sul carattere prodotto e performato di ogni identità culturale, come processo sempre in atto e inscindibile dalle rappresentazioni, in questo caso filmiche, nel quale si esplica (v. Hall, 2006); ciò non toglie che, per dirla con Naficy, esistano «primarie categorie di appartenenza (sedimenti) alle quale ci si attacca per non diventare totalmente privi di peso, atomizzati, o alienati» (2001, p. 286). In secondo luogo, può essere utile rievocare le considerazioni pragmatiche e disincantate di Naremore sull’attorialità cinematografica, quando afferma che

il cinema è l’unico medium in cui diversi attori vengono tipicamente usati per recitare un ruolo: una voce viene doppiata, una controfigura rappresenta un torso, un hand model manipola oggetti in primo piano, uno stunt man si esibisce in un’azione pericolosa in campo lungo, apparendo sullo schermo come un’unica caratterizzazione, un “oggetto” di fascinazione tenuto insieme dal nome di un personaggio e dalla faccia di una star» (1990, p. 79).

Quanto al quesito cruciale sollevato da Shohat e Stam, vale a dire: «Possiamo evitare le trappole gemelle dell’“identitarismo etnico” [“ethnic insiderism”] […], per cui solo i yoruba possono parlare per i yoruba, e della facile appropriazione per cui qualsiasi turista che spenda una settimana nella terra dei yoruba può parlare per i yoruba?» (1994, p. 343), ad esso si può rispondere, allargandolo alla sfera attoriale, solo accettando la sfida della complessità, ma allo stesso creando le condizioni perché gli interpreti di origini non italiane possano godere di pari opportunità di accesso e crescita nel mestiere attoriale.

Come possiamo ottenere questi risultati a medio termine? Per esempio, ricorrendo a politiche affermative nella selezione degli aspiranti allievi alle scuole di recitazione, in modo da favorire l’ingresso di futuri attori accentati. Per esempio, imponendo alle società di produzione i principi del non-traditional e del blind casting – negli Stati Uniti in discussione da oltre venticinque anni – in modo da ripulire i breakdown da ogni riferimento a razza, etnia, genere, quando non sia esplicitamente imposto dalla sceneggiatura. Per esempio, sviluppando iniziative che facciano emergere e valorizzino la presenza dei cineasti afrodiscendenti che già oggi contribuiscono a tenere a galla, sia pure sempre più perigliosamente, la barca del cinema italiano, sul modello di quelle varate in Francia o in Gran Bretagna: penso al documentario Noirs et blancs en couleurs di Maurice Dubroca, realizzato sulla scia del successo internazionale di Quasi amici con Omar Sy e programmato nel dicembre 2012 sull’emittente France Ô[21]; oppure alla mostra fotografica “Want to see more of me” creata nel 2009 da Donald Mac Lellan in partenariato con l’uk Council[22].

Accettare la sfida della complessità significa essere consapevoli anche del carattere auspicabilmente contingente di queste politiche; persino, perché no, fare i conti con le provocatoriamente sane osservazioni di Shohat e Stam, quando si chiedono:

Cos’è che non va nel casting non originario? La recitazione non comprende sempre un gioco ludico con l’identità? Dovremmo applaudire i neri che recitano Amleto ma non Laurence Olivier che recita Otello? […] Il casting, a nostro avviso, deve essere visto in termini contingenti, in relazione al ruolo, all’intenzione politica ed estetica e al momento storico (1994, p. 191).

Accettare la sfida della complessità significa, quindi, aprirsi sul piano discorsivo a un orizzonte di possibili senza preclusione alcuna, a patto di tenere a mente tre questioni: la prima, di ordine squisitamente estetologico, riguarda per un verso il carattere ancora prepotentemente dominante del naturalismo e della teoria del rispecchiamento nella creazione e nella ricezione dei prodotti dell’audiovisione (e non solo); la seconda, che da questa logicamente consegue, chiama in causa la perdurante rilevanza sul piano dell’immaginario delle rappresentazioni audiovisuali, in senso expanded[23]; la terza riguarda l’orizzonte concreto dell’industry: fino a quando in Italia non si formerà uno star system afrodiscendente, e quindi diventerà conveniente anche per i produttori puntare sul valore aggiunto dei performer africani di nascita od origine, le loro condizioni di lavoro non cambieranno, e questo difficilmente si realizzerà senza un’acquisizione di consapevolezza anche politica da parte anzitutto del pubblico italiano di origini africane e senza la parallela crescita di una generazione di autori (registi e sceneggiatori) afrodiscendenti.

 

Illustrazioni

Fig. 1. Donatella Finocchiaro e Timnit T. (Terraferma)

Fig. 2. Il villaggio di cartone

Fig. 3. Hassani Shapi (Lezioni di cioccolato 2)

Fig. 4. Ahmed Hafiene (Scontro di civiltà)

 

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[1] Si vedano Balbo e Manconi, 1992, p. 24 e ss.; Einaudi, 2007, p. 141 e ss.; Forgacs 2001, p. 85 e sgg.  

[2] Con quest’espressione mi guardo bene dal sottintendere che questi trecento e più titoli presentino un’agenda postcoloniale di riflessione sui temi dell’intercultura o della convivenza. Sono esclusivamente la presenza nel cast tecnico/artistico o nel mondo diegetico di soggetti africani o afrodiscendenti, oppure l’ambientazione o una location africane, ad autorizzare a mio avviso in qualche modo un’operazione di ermeneutica che rimane tendenziosa, anche perché non poggia necessariamente su altri elementi di autolettura del testo filmico.

[3] Questo testo è il risultato di una riflessione sulla politica degli attori nel cinema italiano post-1989 che ho articolato in altri due contributi recenti, declinati, rispettivamente, sul cinema italiano dell’immigrazione nel suo insieme, e sulle marche di orientalismo nei film d’interesse africano e diasporico. Ringrazio Daniela Aronica (Quaderni del csci), Roy Menarini e Marco Dalla Gassa (Cinergie) di avermi dato occasione di sviluppare questa ricerca, aggiustando il tiro e verificando ogni volta strumenti e ipotesi di lavoro. Cfr. De Franceschi 2012a, 2013.

[4] Vedi Shohat e Stam, 1994; in particolare il capitolo Sterotype, Realism and the Struggle over Representation (pp. 178-219).

[5] Questo riferimento alla prospettiva fattuale sta a significare che questi film articolano un discorso interculturale anche indipendentemente dalle intenzioni degli autori. Cfr. anche la nota 2.

[6] Può essere utile andarsi a leggere un’intervista realizzata di recente a questo contadino afrocolombiano, lanciato con scarsa fortuna da Pontecorvo. Esiste anche una breve versione video dell’intervista. Cfr. Cairoli, 2011.

[7] Racconta in proposito lo stesso Salvatori: «Il regista volle a tutti i costi questo nero, questo Evaristo Marquez, che poi tagliava la canna all’interno della Colombia […]. Evaristo era bello, non c’è dubbio, ma non capiva niente, non si muoveva. C’erano delle scene in cui io gli tenevo legata la gamba destra con un filo, Brando il polso con un altro, e per farlo girare dovevamo tirare altrimenti non si spostava». Cit. in Faldini e Fofi, 1984, p. 63. Si veda anche la testimonianza di Pontecorvo in Bignardi, 1999.

[8] Colpisce che, a distanza di pochi mesi, sfruttando il relativo successo di Queimada, e cucendo addosso a Márquez il personaggio-icona del dio fallico Djamballà, su iniziativa del produttore Alfredo Bini, Piero Vivarelli abbia girato sempre a Cartagena un cult del filone esotico-erotico come Il dio serpente (1970). Il lieve e pretestuoso sottotesto anticoloniale, affidato perlopiù al personaggio della maestrina Stella (l’afrogiamaicana Beryl Cunningham), produce un curioso gioco di rimandi al film di Pontecorvo, confermando l’opportunità di cominciare a lavorare a una controstoria del cinema italiano, proprio a partire dagli echi (post)coloniali e dalla politica degli attori, che si situi a cavallo tra pratiche alte e basse.

[9] Nella stessa direzione di Bazin dobbiamo intendere la riflessione metacritica sulla politica degli attori nel neorealismo portata avanti da Luchino Visconti in Bellissima (1951) e da Michelangelo Antonioni in La signora senza camelie (1953).

[10] Varrà la pena ricordare che sul piano dell’economia patemica e simbolica del singolo testo filmico, le ricadute di pratiche discutibili sul piano della politica degli attori possono essere compensate sul piano della sceneggiatura e della regia da una gestione oculata del punto di vista e della focalizzazione, ponendo l’enfasi sulla soggettività di un (co)protagonista migrante/non italo-italiano, anche se impersonato da un attore non professionista. Si veda il caso emblematico di Good Morning Aman (e di Riparo, con le dovute differenze).

[11] Vale la pena riflettere sui casi emblematici di alcune recenti fiction rai come Butta la luna (Vittorio Sindoni, 2006-09) e Bakhita (Giacomo Campiotti, 2009). Cfr. Scego 2006. Rinvio anche alla conversazione con Kim Bikila.

[12] Il breakdown, vero, è quello lanciato dalla oz Film di Francesco Lopez per il casting de Il villaggio di cartone di Olmi. Lo si può leggere integralmente su diversi portali per attori come Lavorare nello spettacolo (lavorare-spettacolo.com/AREA-RECITAZIONE/Casting-cinema-e-tv/Provini-Film-di-Ermanno-Olmi../).

[13] Si vedano Coletti, 2012; O’Healy, 2007, 2009.

[14] Si veda Duncan, 2007.

[15] Come ha fatto di recente Matteo Pellegrini per il suo brillante Italian Movies. Cfr. De Franceschi 2012b.

[16] Si veda O’Healy, 2010.

[17] Per africani o afrodiscendenti posano da/passano per anche Marzia Tedeschi (Il pane nudo) e Monica Guerritore (Parfums d’Alger). Benhadj ha rivendicato queste scelte sul piano espressivo: si veda la conversazione contenuta nel volume.

[18] Ritengo che pratiche come il blackface (tanto desueta quanto appare diffusa la sua variante light, l’ethnoface) possano essere spendibili sul piano di un’etica della rappresentazione interculturale e crossculturale, solo a patto che il regime discorsivo del testo filmico sia improntato a strategie esplicitamente antinaturalistiche.

[19] La lavorazione del film si è trascinata per vicende produttive fino al 2008, quando La straniera ha ottenuto il visto di censura per essere presentato in anteprima mondiale solo nel 2009 al Torino Film Festival ed essere distribuito direttamente in homevideo l’anno successivo.

[20] Per approfondimenti sull’esperienza di Ahmed Hafiene nel cinema italiano, rimando alla lettura della conversazione contenuta nel presente volume.

[21] Si veda Centola, 2013.

[22] Cfr. Anonimo, 2009.

[23] Si veda Dyer, 2004, p. 13: «le rappresentazioni qui e ora hanno conseguenze reali per le persone reali, non solo per il modo in cui sono considerate […], ma anche per la misura in cui le modalità rappresentative delimitano e permettono cosa le persone possono essere in una data società».

 

 

 

[1] Si vedano Balbo e Manconi, 1992, p. 24 e ss.; Einaudi, 2007, p. 141 e ss.; Forgacs 2001, p. 85 e sgg.