di Bruno Torri, presidente SNCCI, Sindacato Critici Cinematografici Italiani
Contrariamente alle apparenze, non è semplice dire che cosa è il cinema, che in realtà è un fenomeno molto composito e molto complesso, e quindi soggetto a molte definizioni, oltre che a molte interpretazioni.
Per tentare, non solo e non tanto una definizione con pretese di esaustività, quanto una sorta di avvicinamento progressivo all’essenza dello stesso fenomeno cinematografico, può intanto essere utile un primo accorgimento, e cioè di fare riferimento al cinema tradizionale, a ciò che oggi viene chiamato il “cinema-cinema”, vale a dire, in altri termini, il film proiettato su un grande schermo in una sala buia a più spettatori.
Tenendo presente il modello originario del “cinema cinema”, si può cominciare a indagarlo ipotizzandone alcune delle tante definizioni che possono risultare pertinenti, senza peraltro dimenticare che ormai da diversi anni la visione di un film avviene in tanti altri modi, e che il consumo individuale (in televisione, su internet, ecc.) ha superato, quantitativamente, quello collettivo
La prima definizione del “cinema cinema”, che è la più comune, la più largamente condivisa, e non solo dal pubblico cinematografico, può essere questa: il cinema è un passatempo, un divertimento, uno svago. Detto in termini sociologici meno approssimativi, il cinema è “un modo di occupazione del tempo libero” (Edgar Morin). Tale definizione, evidentemente, riguarda soprattutto il cinema per come abitualmente viene esperito e considerato dalla maggior parte delle persone.
Un’altra definizione possibile è questa: il cinema è uno spettacolo. Come la precedente, anche questa è una definizione banalmente giusta e largamente condivisa, tanto che il cinema viene spesso classificato come un “ramo dello Spettacolo”, parimenti al Teatro e alla Lirica, da cui si differenzia principalmente, oltre che per la sua maggiore popolarità, per il suo essere uno “spettacolo riprodotto” e non uno “spettacolo dal vivo”.
Il cinema è anche un mass medium, ovvero, un mezzo di comunicazione di massa, come la televisione, la radio, i giornali. In quanto mezzo di comunicazione di massa, il cinema fa parte e alimenta la cultura di massa e la società di massa (dentro le quali siamo, per così dire, tutti immersi).
Un’altra definizione qualifica il cinema come una tecnica, o meglio, come un insieme di dispositivi tecnici. Il cinema, d’altronde, è nato proprio così, appunto come un’invenzione tecnico-scientifica. La storia del cinema è anche la storia delle successive modificazioni, o innovazioni, o perfezionamenti tecnici del cinema stesso: il sonoro, il colore, lo schermo panoramico, sino alle più recenti tecnologie che consentono i più sofisticati “effetti speciali”, e sino al digitale: tutte invenzioni tecniche che hanno modificato il cinema stesso, cioè i suoi modi di produzione, i suoi modi di espressione e anche i suoi modi di fruizione.
Il cinema può anche essere definito un’arte: un’arte che appunto si avvale di supporti tecnici. In quanto arte (quando lo è) il cinema può essere affiancato alle altre arti, diventa parte del “sistema delle arti”. Pur manifestando una propria specificità molto marcata, propri accentuati tratti distintivi, il cinema evidenzia tuttavia diverse affinità con altre arti, in particolare con il teatro (anche il cinema è a suo modo un’arte della rappresentazione), con la letteratura (anche il cinema è a suo modo un’arte della narrazione), con la pittura (anche il cinema è a suo modo un’arte della visione).
Si può poi definire il cinema come un’istituzione sociale. Infatti il cinema riguarda il campo dell’economia, il campo della politica (c’è in tanti paesi, inclusa l’Italia, un’apposita legislazione cinematografica), ed è soprattutto rivolto a un pubblico generalizzato, potenzialmente a tutta la comunità dei cittadini; un pubblico che, attraverso una sorta di rituale collettivo, è chiamato a entrare in contatto con il cinema stesso in luoghi pubblici appositamente costruiti (le sale cinematografiche) sostenendo un costo (il prezzo del biglietto).
Oltre a queste sinteticamente elencate, sono possibili diverse altre definizioni, ma due in particolare possono risultare molto importanti e chiarificatrici, e sostanzialmente finiscono per comprendere anche le altre sopra accennate. Queste due definizioni sono: il cinema è un’industria e il cinema è un linguaggio.
Prima di ragionare su queste due definizioni, occorre fare qualche precisazione. Intanto una di tipo terminologico e insieme concettuale che concerne proprio la nozione di definizione. Bisogna sempre ricordare che una definizione, contrariamente a quanto il termine medesimo può suggerire, non deve essere assunta come una formula definitiva ed esclusiva, come una verità indiscutibile, valida una volta per tutte. Una definizione, affinché possa risultare euristicamente feconda, va invece concepita e utilizzata per aprire un discorso e non per chiuderlo, per ipotizzare una linea di ricerca; e quindi va sempre problematizzata e messa in discussione, cioè va sottoposta a verifica riscontrandola continuamente con l’oggetto che intende definire. La definizione, nel momento stesso in cui afferma (ad esempio che il cinema è un linguaggio), compie anche una negazione, in quanto, mentre include, contemporaneamente lascia fuori tutto ciò che non rientra nella definizione stessa, e quindi occorre ogni volta accertare, tra l’altro, se quello che lascia fuori appartiene anch’esso, e in che modo e misura, all’oggetto definito.
Un’altra precisazione che appare opportuno premettere è, invece, proprio inerente al fenomeno cinematografico. Il cinema, come abbiamo visto, può essere definito in più modi, e tutti questi modi possono essere, almeno parzialmente, giusti perché le diverse definizioni che possono competergli non si escludono l’una con l’altra, bensì si integrano: sono tutte, ad un tempo, pertinenti e complementari (vedremo poi che sono anche, per così dire, interagenti). Tutto questo convalida quanto già anticipato, cioè che il cinema è un fenomeno complesso e composito; e che però tende a costituirsi come un insieme, o per dirla in altri termini, che manifesta un assetto globale e (sostanzialmente) unitario.
Il cinema come industria
Dunque il cinema è – contemporaneamente, contestualmente – un’industria e un linguaggio (così come è anche un divertimento, uno spettacolo, ecc.). Che sia insieme un’industria e un linguaggio è tanto lapalissiano da non richiedere spiegazioni. Invece conviene interrogarsi su che tipo di industria e su che tipo di linguaggio sia il cinema – e si potrà subito constatare che si tratta di un’industria molto particolare e di un linguaggio molto particolare. Possiamo cominciare a scorgere distintamente queste particolarità analizzando brevemente il cinema inteso come industria.
Il cinema, come tutte le industrie, produce merci, e la singola merce che il cinema, l’industria cinematografica, produce è il film. Il film può dunque essere visto e studiato come un prodotto industriale, appunto come una merce. In quanto tale presenta alcuni aspetti che sono comuni a tutte le merci; mentre altri aspetti sono tipici, peculiari, del film, della merce-film, e pertanto lo distinguono dalle altre merci.
Vediamo, per punti, i caratteri che il film ha in comune con le altre merci.
1) la merce-film è il prodotto di un’attività industriale destinata al mercato. Dove c’è industria, c’è sempre mercato, e l’industria cinematografica non fa certo eccezione. Come le altre merci, il film è fatto, è fabbricato, per essere consumato, cioè venduto nel mercato cinematografico (che in passato, per un lungo periodo, è consistito soltanto nelle sale cinematografiche, mentre oggi comprende anche altri spazi – televisione, DVD, internet, ecc. – dove vengono presentati i film.
2) la merce-film è il risultato finale di una determinato lavoro umano. Il lavoro che si esplica nell’attività cinematografica è di tre tipi: manuale (ad esempio, quello svolto dai manovali che con incombenze diverse lavorano sul set), tecnico (ad esempio, quello del direttore della fotografia o del montatore), intellettuale-creativo (ad esempio quello del regista o degli sceneggiatori).
3) anche la merce-film richiede per la sua fabbricazione l’investimento di capitali (capitale industriale e capitale finanziario); capitali che, di regola, cercano sul mercato la loro remunerazione. E dunque la merce-film si può considerare anche come risultato finale, come conclusione di un processo di trasformazione, materiale ed economica, che mediante il lavoro, da un lato, e, dell’altro complementare lato, mediante l’investimento di capitali, porta dalla materia prima (dai materiali iniziali) al prodotto finito: si passa cioè dalla pellicola vergine e dall’idea originaria al film finito, alla merce-film pronta a entrare nel mercato.
4) infine, e sempre in analogia con le altre merci, il film, la merce-film, ha un valore di scambio (il prezzo del biglietto cinematografico) e un valore d’uso (la particolare soddisfazione che può produrre la visione di un film).
In questi quattro punti, e in estrema sintesi, è indicato tutto ciò che accomuna la merce-film alle altre merci, agli altri prodotti industriali che circolano sul mercato. Ma la merce-film presenta anche degli aspetti speciali che la rendono diversa, in tutto o in parte, dalle altre merci, e proprio per questo rivestono un’importanza maggiore in quanto servono a inquadrare e a distinguere meglio e il cinema e i film. Anche questi aspetti distintivi possono essere sintetizzati in quattro punti, che sono più importanti proprio perché più specifici, più inerenti al fenomeno cinematografico.
1) a differenza di quasi tutte le altre merci, che abitualmente sono prodotte in serie, il film, qualsiasi film, è un prototipo. Questa caratteristica può essere più o meno marcata (lo è molto nei cosiddetti “film d’autore”, lo è meno nei “film di genere” o nei “remake”), ma è sempre, necessariamente, presente, poiché è proprio il costituirsi come un prototipo che conferisce al film, alla merce-film, anche la sua specifica natura economico-commerciale, la sua possibilità di presentarsi sul mercato in maniera differenziata rispetto a tutti gli altri film, ovvero, a tutti gli altri prototipi. Sotto questo aspetto, un film è analogo a un libro o a un quadro: sono tutti “beni culturali”, sono tutti prodotti unici e sono anche, in senso sociologico molto ampio e senza implicazioni valoriali, sono “beni culturali”, cioè sono diversi dai beni utilitaristici, come ad esempio un’automobile, e dai beni “voluttuari”, come ad esempio un profumo; appunto perché, diversamente dai film, le automobili e i profumi, come la quasi totalità delle altre merci “normali” comprate appunto per fini utilitaristici o voluttuari, sono fabbricate in serie.
2) a differenza della maggior parte delle altre merci, il film richiede abitualmente un consumo collettivo, consumo che determina una sorta di ritualità sociale (l’uscire di casa per andare al cinema e vedere, assieme ad altre persone, altri spettatori, un film in un ambiente pubblico). Questo dato basta a far capire le correlazioni, le interazioni, esistenti tra il cinema considerato come un’industria e il cinema considerato come un’istituzione sociale, e quindi l’appartenenza di questa industria e di questa istituzione sociale alla cosiddetta “sfera pubblica”. Sempre sotto l’aspetto del consumo collettivo, l’industria cinematografica e quindi la merce-film funzionano come componenti tipiche della società di massa, tra i cui connotati peculiari vi sono, appunto, i consumi di massa e la cultura di massa (il cinema è sempre stato e continua ad essere, anche se oggi su più scala ridotta, un coefficiente e un supporto della cultura di massa).
3) a differenza delle altre, la merce-film può determinare uno scarto, più o meno forte, tra consumo e gradimento, poiché solo dopo che si è pagato il biglietto e visto (consumato) un film (un prototipo) si è in grado di misurare il gradimento, si sa se è piaciuto tanto o poco, o addirittura se è risultato sgradevole. E a questo proposito si può notare che per gli spettatori cinematografici la scelta dei film da vedere, per quanto possa essere orientata e consapevole, comporta sempre un tasso di aleatorietà, e che il metro di giudizio, ovvero l’indice di gradimento, varia da spettatore a spettatore, in quanto ognuno ha un proprio “codice d’attesa” e un proprio gusto (un gusto cinematografico che può essere più o meno coltivato).
4) a differenza della maggior parte delle altre merci, il film contiene sempre una spiccata componente ideologico-culturale, tanto che il cinema venne definito da Adorno, con implicito senso negativo, “il medium per eccellenza dell’industria culturale” (oggi questo primato spetta alla televisione), e altri studiosi, non a caso, hanno parlato del cinema come “industria della coscienza” e del film come “merce spirituale”.
Sull’industria cinematografica e sul film inteso come merce si potrebbero svolgere molte altre osservazioni che porterebbero ad ulteriori considerazioni, indicando, ad esempio, sottolineando che si tratta di un’industria molto anomala e molto rischiosa, come confermato da apposite ricerche di mercato fatte, soprattutto, negli Stati Uniti. E inoltre va ricordato che oggi l’industria cinematografica, in modo molto più forte rispetto al passato, è sempre maggiormente integrata nel sistema audiovisivo, e che le sue componenti economiche e commerciali sono sempre più condizionate da quelle degli altri media audiovisivi, e questo accentua ulteriormente il carattere composito e complesso del fenomeno cinematografico. Comunque le specificità del cinema restano importanti e determinanti, sia nel cinema inteso come industria, sia, come vedremo subito, nel cinema inteso come linguaggio.
Il cinema come linguaggio
Parlando del cinema come industria, abbiamo usato termini come “prototipo”, “film d’autore”, “bene culturale”, “cultura di massa”, “merce spirituale”, abbiamo fatto paragoni con i libri e con i quadri, insomma abbiamo fatto ricorso a parole, a locuzioni, che in qualche modo già rimandano al linguaggio cinematografico, in quanto lasciano supporre che il film non sia soltanto un prodotto industriale, non sia soltanto una merce particolare, ma anche un’opera, un testo, e quindi che sia anche la risultante dell’uso, dell’applicazione, di un linguaggio; un linguaggio che, come abbiamo già premesso, è anch’esso molto particolare.
Ma prima di indagare sulla particolarità di questo linguaggio, conviene insistere ancora un momento su quell’aspetto essenziale del fenomeno cinematografico che abbiamo indicato con la dizione, e con la nozione, di “assetto globale e unitario”, proprio mettendo in relazione il cinema inteso come industria e il cinema inteso come linguaggio.
Abbiamo visto in che modo il cinema si configura come industria e possiamo dare per scontato, intanto, che il cinema sia anche un linguaggio, e come tale possa essere analizzato e discusso. Semmai, anche a questo proposito, si tratterà di stabilire, di capire, che tipo di linguaggio sia, ricordando, tra l’altro, proprio per sottolineare la complessità della questione, che per Christian Metz (il fondatore e maggiore esponente della semiologia cinematografica) è “un linguaggio senza lingua” (poiché, a differenza della lingua scritta e parlata, non ha la doppia articolazione delle parole e non ha un proprio vocabolario), per Garroni è un “linguaggio eterogeneo” in quanto miscela linguaggi diversi, per Pasolini è, in quanto riproduzione audiovisiva dei dati fenomenici del mondo fisico, “la lingua scritta della realtà”. Comunque, in qualsiasi modo lo si voglia intendere, il linguaggio cinematografico rimanda obbligatoriamente ai film, cioè a quegli oggetti che rappresentano l’attuazione – ovvero l’utilizzazione soggettiva e la pratica oggettivazione – delle infinite possibilità d’impiego, a fini espressivi e comunicativi, dello stesso linguaggio cinematografico.
Ma restando ai rapporti tra il linguaggio cinematografico e l’industria cinematografica, si può subito notare che entrambi sono indispensabili alla contestuale realizzazione dei film; film che appunto sono, nello stesso tempo, un’opera e un prodotto, un testo e una merce, sono frutto, cioè, e di un’attività imprenditoriale e di un’attività creativa. Il cinema è, sempre e insieme, industria e linguaggio; e i film manifestano, al contempo, un valore di scambio, che deriva dal loro essere delle merci, dal fatto che il cinema è un’industria, e un valore d’uso, che deriva dal loro essere dei testi, delle opere, ovvero, deriva dal fatto che il cinema è un linguaggio. Non c’è un prima e un dopo. E non c’è neppure un più o un meno. Ci sono indubbiamente delle contraddizioni, e a volte anche delle conflittualità, tra l’industria cinematografica e il linguaggio cinematografico, ma sono del tutto interne alla cosa stessa: tanto l’industria cinematografica quanto il linguaggio cinematografico rientrano nell’ontologia sociale del cinema, e sono entrambe parte costitutiva del tendenziale assetto globale e unitario del cinema stesso. E per insistere ancora su questo aspetto, nonché per ribadire la complementarietà e l’interazione tra le diverse definizioni del cinema, si pensi solo per un attimo a come la tecnica cinematografica investe e insieme viene investita dall’industria cinematografica e dal linguaggio cinematografico, che non a caso è considerato propriamente un linguaggio tecnico-espressivo o tecnico-comunicativo (una delle distinzioni forti del cinema rispetto alle altre arti, consiste proprio in questo aspetto, cioè nel suo endemico ricorso, per manifestarsi come linguaggio, alle apparecchiature tecniche e tecnologiche).
Ribadendo dunque che il cinema è sempre, e sempre nello stesso momento, industria e linguaggio, in quanto i film sono sempre, ad un tempo, merce e testi, prodotti e opere, si afferma anche che nel cinema sono compresenti due anime: un’anima economico-commerciale (industriale, appunto) e un’anima culturale (usando ora il termine culturale nella sua accezione più antropologica). E con questo si dice anche, implicitamente, che il cinema può essere studiato da punti di vista diversi (quello economico, quello tecnico, quello sociologico, quello artistico, e anche quello psicologico e psicanalitico, cioè valutando come il cinema, attraverso i film, agisce sulla psicologia dello spettatore); ma tenendo ben presente che ogni singolo punto di vista è in sé legittimo metodologicamente, ma è anche parziale, nel senso che non esaurisce l’oggetto indagato, cioè non restituisce integralmente del cinema il suo essere un fenomeno, come ormai abbiamo più volte ripetuto, composito e complesso, che tende a manifestare un assetto globale e unitario. Pertanto, per ritornare alla doppia ottica che abbiamo voluto privilegiare, il cinema come industria e il cinema come linguaggio, è bene essere consapevoli che, quando si ragiona sul cinema-linguaggio e sul cinema-industria o – ma è praticamente la stessa cosa – sul film come testo e sul film come merce, quando si usano queste categorie, non si è di fronte a coppie di opposti, a una dicotomia irriducibile, ma si è di fronte a una polarità dialettica, a un rapporto reciproco tra funzioni diverse, a momenti diversi ma correlati dello stesso fenomeno.
Fare cinema, ovvero fare film, significa sempre utilizzare un linguaggio e svolgere un’attività imprenditoriale. E questo lo si può verificare innanzi tutto nella fase della realizzazione (produrre un film non comporta soltanto produrre una merce particolare, ma anche produrre senso e immaginario), poi lo si può verificare nella fase successiva che è quella, simultanea, della commercializzazione (attraverso la pubblicità e la vendita) della merce-film e della socializzazione del testo-film, dell’opera filmica. La doppia anima del cinema è compresente e persistente in tutti i momenti di gestazione e di vita di un film. Basti pensare a come nasce un film e ai rapporti di collaborazione, ma non di rado anche conflittuali, tra il regista e il produttore. Al riguardo, basta soffermarsi rapidamente sulle tre fasi della realizzazione filmica.
Già nella prima fase – la preproduzione – appaiono presenti attività che rimandano al linguaggio cinematografico e altre attività che rimandano all’industria cinematografica. La preproduzione, infatti, comprende la stesura di un soggetto, di un trattamento e di una sceneggiatura; i sopralluoghi per individuare gli ambienti dove il film verrà girato; la scelta degli attori; la preparazione del piano di lavorazione; e altre attività ancora. Ebbene ognuna di queste attività, che vedono impegnati il regista e i suoi collaboratori e che prefigurano il linguaggio cinematografico del film, investono anche la dimensione industriale del film stesso in quanto comportano dei costi finanziari (compensi ai soggettisti e agli sceneggiatori, spese di viaggio per individuare le location, anticipi per impegnare gli attori, ecc.). Già in questa fase il regista e il produttore devono necessariamente collaborare (e magari litigare), cercando ognuno di salvaguardare le proprie esigenze (quelle espressive da un lato e quelle economiche dall’altro) e di trovare il punto d’accordo.
La seconda fase è quella della produzione, che comprende le riprese sui diversi set; riprese che possono essere in esterni o in interni, in ambienti reali o ricostruiti in teatro di posa, in presa diretta o meno. E’ la fase in cui il film viene “girato”, in cui la pellicola (per restare al supporto tradizionale) viene “impressionata”, in cui il regista, restando più o meno fedele alla sceneggiatura, e cercando di rispettare il piano di lavorazione, lavora con gli attori, oltre che con molti altri collaboratori. Ed è pure la fase che comporta i maggiori costi produttivi. Anche in questa fase il regista e il produttore devono collaborare (e possono litigare). Il regista, per ragioni espressive, può essere portato a girare la stessa scena più volte e da diversi punti di vista, usando perciò più di una cinepresa, e quindi il produttore è a sua volta interessato, per contenere i costi e non “sforare” il budget preventivo, a evitare lo spreco di pellicola, a restare nel piano di lavorazione, ecc. ecc.
Nella terza fase, quella della postproduzione, che comprende il montaggio e il missaggio, per poi arrivare allo sviluppo e alla stampa delle copie del film destinate alla distribuzione sul mercato cinematografico, sono ancora compresenti le diverse attività e le diverse esigenze del produttore e del regista, i quali come nelle fasi precedenti potrebbero spingere in direzioni opposte (ad esempio, il regista potrebbe volere molti turni di doppiaggio e l’utilizzazione di diritti musicali molto costosi scontrandosi così con l’interesse del produttore a ridurre i costi). E persino dopo che il film è finito e viene “lanciato” nel mercato, il produttore e il regista devono ancora collaborare (e magari ancora litigare): per la scelta dei manifesti, per il piano pubblicitario, e per altri motivi ancora.
Insomma in ogni momento della sua realizzazione e socializzazione, per così dire dalla nascita alla morte del film (morte relativa, perché anche quando è in cineteca un film può continuare a vivere nelle proiezioni dei cineclub, o può “rinascere” a distanza di tempo con delle riedizioni), in ogni momento le due anime del cinema, quella industriale e quella culturale, convivono, collaborando e, a volte, scontrandosi.
Ma cominciamo finalmente a parlare unicamente e specificamente del linguaggio cinematografico, non tanto nei suoi aspetti di astratta codificazione, quanto, soprattutto, nelle sue concrete modalità di attuazione, nel suo calarsi nei singoli film. Quindi cerchiamo di pensare il linguaggio cinematografico così come si manifesta nei film intesi come testi, come opere.
Sinora abbiamo usato i termini testi e opere come sinonimi, e possiamo continuare a farlo. Dobbiamo però avvertire che, specialmente in sede di studi semiologici, si può individuare qualche sia pur sottile differenza tra i due termini. Il testo implica una nozione più tecnica, ed è connotato soprattutto dall’aseità semantica, rimanda tendenzialmente a una struttura chiusa, in un certo senso autoreferenziale, che attende la “lettura”, la decodificazione. L’opera attiene maggiormente al processo compositivo, è intesa prevalentemente come risultato di un’attività umana, creativa, che manifesta le proprie finalità non solo in se stessa ma anche nei riflessi che può avere all’esterno, ed è in grado di avere influenze multiple, sul singolo e sulla collettività, sulla dimensione privata e sulla dimensione pubblica. Ma intanto possiamo continuare a usare indifferentemente i due termini, anche se, con riferimento al linguaggio cinematografico, sarebbe forse meglio privilegiare il termine testo (il testo filmico) in quanto richiama meglio l’analisi testuale e quindi rimanda al funzionamento specifico del linguaggio cinematografico.
L’analisi del film
Proviamo dunque a vedere che cosa comporta l’analisi di un film, inteso appunto come testo filmico. E proviamo subito ad azzardare una definizione. Un testo filmico è un organismo semantico dotato di potenzialità, o più precisamente, di specificità espressive e comunicative, ovvero, è un oggetto costruito e reso funzionale da un linguaggio (il linguaggio cinematografico) attivato da un artefice (un autore) in vista di un destinatario, un “lettore” in senso lato, ovvero, lo spettatore cinematografico. Che poi l’autore e il lettore (spettatore), nel caso del cinema, siano soggetti collettivi non cambia nulla dal punto di vista dell’indagine del linguaggio utilizzato, mentre cambierebbe moltissimo se si assumesse un altro punto di vista, ad esempio economico o sociologico o psicologico.
Ma possiamo prendere spunto da questa precisazione per ricordare quello che tutti sanno, ma molto spesso dimenticano, e cioè che, a differenza di quanto avviene nelle altre pratiche artistiche, nel cinema la creazione, mediante l’uso di un linguaggio, è sempre frutto di un lavoro collettivo: ogni film, in misura ogni volta diversa, richiede sempre l’apporto e la collaborazione di più figure professionali, di più competenze realizzative e creative. Questo aspetto e l’altro aspetto, già segnalato, costituito dal fatto che il cinema è fondamentalmente appoggiato e condizionato dalle varie apparecchiature e tecniche cinematografiche rappresentano i due maggiori elementi di differenziazione del cinema stesso dagli altri linguaggi artistici.
Tornando al testo filmico, e alla sua analisi (che non è ancora la sua critica), si deve subito constatare che per analizzarlo occorre scomporlo e ricomporlo, disaggregarlo e riaggregarlo, nei suoi elementi costitutivi, che poi non sono altro che le modalità d’impiego del linguaggio cinematografico trasferito nel testo filmico stesso. E’ pertanto evidente che per analizzare un testo filmico bisogna conoscere adeguatamente il linguaggio cinematografico. Ma, a questo proposito, sorgono subito numerosi problemi. In particolare, sono due quelli che implicano più difficoltà, che richiedono una maggiore attenzione, anche a livello teorico.
Il primo problema riguarda la complessità del linguaggio cinematografico; il secondo attiene alla normale ricezione del film, a come un film viene visto nella sala cinematografica. Circa la complessità del linguaggio cinematografico, ci limitiamo per ora ad accennare solo ad alcuni dei suoi molti aspetti che lo differenziano dagli altri linguaggi, e specialmente dal linguaggio scritto e parlato che è quello che ha ricevuto la maggiore e più penetrante sistemazione teorica in quel ramo particolare della semiologia che è la linguistica. Intanto si deve osservare che il linguaggio cinematografico non ha una propria grammatica e una propria sintassi di tipo normativo, vincolante, pur avvalendosi di mezzi tecnico-espressivi (lo stacco, la dissolvenza, i diversi tipi di “piano”, i diversi tipi di montaggio, ecc.) che in qualche modo regolamentano il discorso filmico, rendendolo relativamente convenzionale e quindi identificabile (ma tutto ciò, più che a costituire una grammatica e una sintassi, è servito a delineare una retorica). Inoltre il linguaggio cinematografico non fa riferimento a un proprio, definito, vocabolario, a meno di non considerare tale tutto il mondo esteriore, tutta la realtà fenomenica che può essere ripresa dalla cinepresa. Ma anche in questo caso sarebbe un vocabolario che mancherebbe del requisito fondamentale dei vocabolari: l’elenco (limitato, anche se continuamente aggiornato) delle parole e dei loro significati, cioè la condizione indispensabile per il formarsi e il dispiegarsi di una lingua. E’ soprattutto per questo motivo che Metz aveva definito il cinema un linguaggio senza lingua, in quanto vi mancano le parole, i segni verbali, vi manca la loro doppia articolazione in monemi e fonemi, e vi manca il tratto peculiare delle parole, cioè il loro essere, insieme, arbitrarie e convenzionali.
Tuttavia, a fronte di queste assenze o carenze, il linguaggio cinematografico può contrapporre addirittura un eccesso di possibilità espressive, in quanto può contare, simultaneamente, su una pluralità di codici e di sottocodici. Proprio perché è un linguaggio eterogeneo che ingloba diversi linguaggi. Al riguardo basta soffermarsi rapidamente, seguendo le indicazioni teoriche di Metz, sui cinque grandi fattori significanti, sulle cinque grandi componenti espressive e comunicative che il linguaggio cinematografico porta in gioco. Questi cinque grandi fattori significanti, come è noto, sono: le immagini (che sono sempre immagini in movimento, a parte la rarissima eccezione del “fermo-immagine”); le parole; la musica; i rumori; le scritte (quelle interne alle immagini che si leggono sullo schermo o le didascalie che possono intervallare due immagini). Ognuno di questi fattori ha in se stesso una propria valenza significativa; ma è dall’unione (dal rapporto sinergico) con gli altri fattori che il film acquista la propria forza espressiva e comunicativa, il proprio specifico significato.
Questi fattori possono essere in tutto o in parte compresenti; l’unico che non manca mai è quello più importante, quello che fa di ogni film un pezzo di cinema, cioè l’immagine. E ognuno di questi fattori è a sua volta internamente differenziato: l’immagine può essere più o meno illuminata, più o meno ravvicinata, può avere una durata più o meno lunga, può riferirsi a una realtà ripresa così com’è in natura o in un ambiente preesistente o invece appositamente pre-disposta, è in questo caso la realtà è la realtà (finta e vera nello stesso tempo) del set cinematografico, cioè il profilmico costruito appositamente in vista delle riprese cinematografiche. Allo stesso modo il parlato, la musica, i rumori, ovvero le componenti sonore dell’espressione e della comunicazione filmica, possono essere in campo e fuori campo, possono essere in presa diretta o postsincronizzati, ma funzionano sempre come fattori significanti, o meglio, co-significanti, poiché è assieme agli altri fattori che costruiscono la significazione del film: da soli non avrebbero lo stesso peso e valore.
Dunque il film, qualsiasi film, è una miscela di segni appartenenti a codici diversi; codici che possono essere cinematografici, propri cioè del linguaggio cinematografico, com’è il caso delle immagini in movimento e in successione, e codici che possono essere extracinematografici, come ad esempio il codice linguistico che viene attivato per far parlare i personaggi o per mostrare delle scritte sullo schermo o il codice musicale impiegato nella colonna sonora. Va aggiunto che i codici extracinematografici, una volta usati nel film, diventano codici filmici, in quanto anche la loro decodificazione è necessaria per comprendere i significati del film stesso.
Facciamo un esempio per essere più chiari: immaginiamo che sullo schermo scorrano le immagini di un uomo che legge ad alta voce una lettera ad altre persone. Le immagini possono riferirsi al totale dell’uomo che legge e delle persone che ascoltano, al campo del solo uomo che legge e al controcampo delle altre persone che ascoltano, al dettaglio della lettera portata in primissimo piano, o alle molte altre realtà e situazioni che possono essere riprese da altre angolazioni. Tutte queste immagini appartengono al codice cinematografico; invece, le parole, le frasi, il testo della lettera che viene letta appartengono al codice linguistico, quindi a un codice extracinematografico, ma inserite nel film, per come sono impiegate e per come sono integrate con le immagini, rientrano nel codice filmico, diventano segni filmici e funzionano come segni filmici che, articolandosi unitariamente con gli altri segni filmici (le immagini, la musica se c’è, i rumori se ci sono), contribuiscono a determinare i significati di quella scena. Questo esempio può anche servire a mettere in luce altri aspetti tipici del linguaggio cinematografico. Intanto evidenzia che questo linguaggio si rivolge a più di un senso dello spettatore, in quanto coinvolge la vista (come le lettura di un libro e la visione di un quadro) e insieme l’udito (come l’ascolto dei dialoghi teatrali o della musica), inviando contemporaneamente più segnali al cervello dello spettatore, che viene così attivato in più modi. Inoltre evidenzia un’altra delle caratteristiche più essenziali e peculiari del linguaggio cinematografico, vale a dire, la sua possibilità di dimensionare in modo totalmente nuovo il tempo e lo spazio, e ciò proprio nel senso che nel film il tempo risulta, per così dire, spazializzato, e lo spazio risulta temporalizzato. Detto altrimenti: la dimensione del film è sempre una dimensione spazio-temporale, dove appunto le categorie del tempo e dello spazio sono reciprocamente condizionanti e finiscono per apparire come fuse. Questo è possibile perché nel cinema, facendo un film, si possono impiegare determinate modalità espressive (pluralità delle angolazioni delle riprese, movimenti della cinepresa, uso del montaggio, ecc.) che sono rese possibili dall’utilizzazione di determinate apparecchiature e di determinate applicazioni tecniche che riguardano in modo specifico l’articolazione del linguaggio cinematografico; e che influiscono poi anche sulle condizioni di visione di un film. Sotto questo importante aspetto, il linguaggio cinematografico evoca in un certo senso il linguaggio dei sogni, dove appunto il tempo e lo spazio appaiono diversi rispetto a come si manifestano nella realtà, in quanto la dimensione onirica è anch’essa tutta segnata da rapidi spostamenti spazio-temporali, da ellissi continue, da “spezzettamenti” e alterazioni delle normali coordinate realistiche.
Tornando ai codici cinematografici e filmici, si deve tenere ben presente che il processo di significazione di un film non viene determinato tanto e soltanto dall’accostamento e dall’unificazione dei diversi segni di diversi codici (iconici, linguistici, musicali) compresi nelle diverse inquadrature, ma soprattutto da come sono messe in successione le inquadrature stesse. Se si mettono in successione due o più inquadrature, il significato reale della scena non è dato dalla sommatoria del significato della prima inquadratura, più il significato della seconda inquadratura più il significato delle altre, bensì dal rapporto (che può essere di continuità, o di discontinuità, o di contrapposizione) intercorrente tra le diverse inquadrature, cioè da come sono montate. Il montaggio era ed è considerato, se non il più importante, certo uno dei più importanti elementi del linguaggio cinematografico e della creazione filmica, tanto che per alcuni teorici – specie nel periodo del cinema muto – corrispondeva allo “specifico filmico”.
Da quanto abbiamo detto sinora, anche se non ci siamo soffermati e non abbiamo approfondito i diversi aspetti – e i connessi problemi teorici e pratici – che riguardano il linguaggio cinematografico, crediamo di averne almeno suggerito la particolarità e la complessità. Ma paradossalmente, per una curiosa contraddizione, si tratta di una particolarità e di una complessità che poi, in pratica, risultano molto attenuate, o addirittura cancellate, per chi si avvicina a questo linguaggio. Non a caso Truffaut disse una volta che tutti ritengono di saper fare due mestieri: il proprio e quello di critico cinematografico. Questa apparente facilità del linguaggio cinematografico deriva principalmente da un fatto: che il cinema, grazie a un insieme di apparecchiature tecniche, normalmente è riproduzione audiovisiva della realtà, o meglio, nei casi predominanti dei film di finzione, è riproduzione del “profilmico”, che poi non è altro che una nuova realtà costruita sul set. E questo fatto, che concerne il momento della realizzazione del film, fa tuttuno con un altro fatto, che riguarda il momento della ricezione, della visione, del film; il fatto, cioè, che le immagini sonorizzate e montate dei film sono, il più delle volte, riconoscibili con una certa facilità.
Ma c’è dell’altro. Il movimento (quello interno e quello in successione) delle immagini e il loro aspetto apparentemente tridimensionale (aspetto dovuto alla profondità di campo, alla prospettiva, all’apparente volume delle immagini stesse), conferiscono al film mentre scorre sullo schermo “l’impressione di realtà”, rafforzando così ulteriormente la sbagliata convinzione che la comprensione di un film, appunto per l’immediata riconoscibilità di molti dei suoi elementi compositivi, sia abbastanza facile. Questa convinzione, sostanzialmente sbagliata, può risultare parzialmente giusta per quei film in cui l’uso del linguaggio cinematografico è limitato alla pura e semplice riproduzione meccanica di quello che viene posto o che si trova davanti alla macchina da presa, senza un’articolazione e una formalizzazione dei “materiali” filmici o profilmici, trattati appunto solo meccanicamente e non anche intellettualmente e artisticamente. (Quasi tutto il cinema amatoriale è così, ma è quello che meno interessa e che non ha alcuna influenza culturale e sociale).
Ma appena il linguaggio cinematografico diventa consapevolmente tramite di un pensiero, di una volizione artistica, e quindi viene elaborato soggettivamente per esprimere e comunicare sentimenti, emozioni, idee, visioni del mondo, allora la sua corretta comprensione, e specialmente se le intenzioni espressive dell’autore o degli autori trovano una compiutezza formale, diventa più difficile, e richiede competenza e applicazione, oltre che una certa corrispondenza di cultura e di sensibilità tra gli autori stessi e i singoli spettatori. Per la sua complessità e per la sua particolarità, cioè per la molteplicità e per la multiformità delle sue possibili articolazioni, il linguaggio cinematografico può rivelare una grande apertura, sia in senso creativo, per chi lo usa, sia in senso interpretativo, per chi lo fruisce.
La complessità e la particolarità del linguaggio cinematografico, che traspaiono maggiormente nei film più elaborati, più riusciti esteticamente, più originali stilisticamente, e, di contro, l’impressione di realtà trasmessa, in misura maggiore o minore, da qualsiasi film determinano degli effetti contraddittori, in quanto, da un lato, viene richiesta, come abbiamo appena detto, una conoscenza specifica del linguaggio cinematografico per avere la capacità di decodificare un film, mentre, dall’altro lato, si continua a presumere che la visione di un film sia agevole, che sia semplice capirlo, poiché comunque si riesce a seguire (non sempre, ma il più delle volte) lo sviluppo della trama, si ricevono impressioni ed emozioni, e insomma si ricava la sensazione, appunto, di averlo compreso (e magari una comprensione, sia pure parziale e superficiale, c’è stata davvero).
Oltre quello della complessità del linguaggio cinematografico, l’altro problema che rende a sua volta complicata l’analisi di un testo filmico, o più semplicemente una certa comprensione immediata di un film, è quello che attiene alla sua abituale ricezione. Le condizioni di ricezione di un film sono, di norma, piuttosto obbligate, e lasciano allo spettatore pochi margini di intervento, tenendolo per molti aspetti in uno stato di passività. A differenza di come può avvenire con la lettura di un libro (interruzioni, sottolineatura di certi passi, ritorni su pagine già lette), la visione di un film in una sala cinematografica avviene in continuità, in una volta sola, dall’inizio alla fine, e tutti i fattori espressivi e comunicativi del film stesso appaiono fusi insieme, perché solo così può e deve essere, sia per scelta necessitata dell’autore, sia per motivi strettamente legati al linguaggio cinematografico e alla tecnica cinematografica, oltre che per ragioni di spettacolo. Inoltre, l’impressione di realtà propria delle immagini filmiche in movimento e in successione, unitamente ad alcune condizioni tecnico-ambientali proprie della proiezione filmica (grandezza dello schermo, buio della sala, scorrimento delle immagini alla velocità di 24 fotogrammi al secondo), fanno sviluppare nello spettatore i processi di fascinazione e di identificazione che ostacolano (non rendono impossibile, ma ostacolano, cioè rendono più complicata e difficile) una “lettura” del film anche oggettiva e razionale, e non soltanto soggettiva e irrazionale. Per dirla schematicamente e brutalmente: l’analisi del film è impossibile a una prima visione in una sala cinematografica, sia perché lo spettatore (anche il più specializzato) è costretto a una ricezione veloce e sintetica che rende difficoltosa la memorizzazione, sia perché è emotivamente troppo coinvolto; e peraltro è anche bello che lo sia (Roland Barthes diceva che “la visione di un film è un festival di emozioni”).
Ma certamente il coinvolgimento emotivo e affettivo, cioè, di volta in volta, l’appassionarsi alla vicenda, lo sbellicarsi dalle risate, il commuoversi sino alle lacrime, l’identificarsi psichicamente con l’eroe o con l’eroina, ebbene tutto ciò non favorisce né il giusto atteggiamento razionale né la giusta distanza critica per svolgere un lavoro analitico pertinente e penetrante. L’analisi corretta del testo filmico pretende altre condizioni di approccio all’oggetto da analizzare, al film appunto, anche se non deve prescindere, in un primo momento, dalla normale visione in una sala cinematografica, per ricavarne suggestioni, ipotesi ermeneutiche, indicazioni sulle scelte stilistiche, insomma una serie di spunti che in qualche misura possono poi servire a orientare il lavoro analitico e anche quello critico.
D’altra parte, detto per inciso, solo la visione di un film sul grande schermo in una sala buia può far provare, per rubare un’altra espressione di Barthes, “il piacere del testo”, ovvero, può consentire il manifestarsi della componente ludica che fa parte, anch’essa, dell’esperienza cinematografica, del rapporto schermico dello spettatore; e inoltre – in determinati seppure non frequenti casi – può far provare allo spettatore più avvertito, assieme ad altre emozioni, quell’emozione di natura estetica che si riceve quando si entra in contatto e si comprende il discorso artistico (e in questi casi “il piacere del testo” è ancora più intenso).
Dopo queste parziali e provvisorie osservazioni sul linguaggio cinematografico, possiamo riprendere il discorso sull’analisi del film, notando che oggi, rispetto al passato, è più agevole analizzare un film perché ci sono più strumenti che servono al lavoro analitico. Oggi ci sono, tra l’altro, i videoregistratori e i DVD che permettono di vedere e rivedere un film tutte le volte che si vuole, anche interrompendo la proiezione e fermando l’immagine per studiarne la composizione interna. E’ quindi possibile quantificare con precisione i diversi dati costitutivi del linguaggio cinematografico calato in un determinato film (ad esempio, il numero delle inquadrature o delle sequenze). Oppure di vedere le analogie tra un film e altri film della stessa “famiglia”, ad esempio dello stesso regista o dello stesso genere, affiancando così alla lettura analitica una lettura comparata. Insomma si può ormai considerare più che sufficiente la strumentazione pratica, così come il retroterra teorico, che possono guidare, in modo metodologicamente corretto, anche se non necessariamente vincolante, l’analisi filmica.
Ma bisogna subito aggiungere che l’analisi filmica non va concepita come una neutra applicazione di tecniche e di metodi, anche se richiede, ovviamente, una certa capacità di utilizzare gli strumenti tecnici e il metodo o i metodi prescelti. Accanto e insieme a tutto questo, nel lavoro analitico deve risultare esposto, chiamato in causa, lo stesso analista, al quale è lecito, e persino doveroso, manifestare anche opzioni, scelte, preferenze personali, sempre nell’osservanza del principio di pertinenza, cioè rispettando il testo per quello che è, senza alterarne i dati costitutivi, ovvero, senza mai ridurlo a pre-testo, come a volte fanno certi analisti (così come certi critici) troppo disinvolti. Peraltro va pure ricordato che è proprio nella natura del linguaggio cinematografico, specialmente di quello impiegato nei film artisticamente più elaborati, il suo risultare semanticamente ambiguo, polivalente, e in qualche misura persino ineffabile.
Ora, proprio la polisemia del testo filmico, il suo aprirsi a una pluralità di interpretazioni, richiede da parte di chi lo analizza un atteggiamento che contemperi l’oggettività (si potrebbe dire, al limite, la scientificità) delle procedure rigidamente analitiche, con la soggettività di chi analizza. Muovendo da questi presupposti e con queste cautele, l’analisi strictu sensu può consentire delle spiegazioni persuasive e delle argomentazioni probanti, appunto perché tese a trovare riscontri oggettivi nel testo filmico analizzato. E al contempo, il manifestarsi della soggettività dell’analista può comportare argomentazioni meno probanti e più opinabili (che, per altri versi, potrebbero pure risultare intriganti e illuminanti), proprio perché non si fermano dietro presunti obblighi di neutralità o di indifferenza, ma sono provocate dall’interesse personale, dalla ricettività, appunto soggettiva, stimolata dal testo filmico all’analista stesso, alla sua cultura e al suo gusto artistico. Ma a questo punto si è già fatto un passo oltre il campo delimitato dell’analisi per passare in quello della critica. L’analisi e la critica coprono aree diverse, ma i loro confini sono molto fluidi.
La critica cinematografica
Sulla distinzione tra analisi del film e critica del film è opportuno spendere qualche parola. Per prima cosa si deve ricordare che l’analisi del film, nell’accezione corrente del termine, fa riferimento soprattutto a quell’insieme di ricerche iniziate in Francia a metà degli anni Sessanta: in particolare si può prendere come momento iniziale il famoso saggio di Christian Metz Le cinèma: langue ou langage?. Si tratta di ricerche nate sotto il segno della semiologia, della semiologia applicata al cinema. Altri punti di riferimento sono stati lo strutturalismo francese (specie nella versione barthesiana, non a caso molto imparentata con la semiologia), la stilcritica di Spitzer, il formalismo russo, la linguistica, naturalmente; e anche, in un secondo tempo, la psicanalisi. Ma, occorre ribadirlo, è stata soprattutto la semiologia cinematografica – cioè lo studio di come si articolano e funzionano i segni filmici all’interno di un testo filmico – a costituire le basi teoriche e a dare l’input operativo all’analisi del film. Naturalmente un film si può analizzare anche da un punto di vista diverso da quello semiologico (ad esempio, in chiave storica, o economico-industriale, o sociologica). Ma si dà ormai per acquisito che quando si parla di analisi del film senza altre specificazioni, si intende l’analisi di come il linguaggio cinematografico è stato formalizzato in un determinato testo cinematografico.
Tra l’analisi e la critica del film ci sono punti di convergenza ma anche differenze rilevanti. Analisi e critica non sono termini oppositivi, non sono nozioni in contrasto, sono termini e nozioni complementari. L’analisi e la critica muovono da presupposti parzialmente diversi e tendono a risultati parzialmente diversi, ma nel loro svolgersi hanno momenti di interferenza.
Tendenzialmente, l’analisi è descrittiva/interpretativa/esplicativa (con l’accento sulla descrizione); mentre la critica, sempre tendenzialmente, è interpretativa/esplicativa/valutativa (con l’accento sulla valutazione). Si può fare l’analisi di un film senza arrivare a una valutazione critica, ma non si può fare critica (intendiamo una critica seria) senza comprendere anche un momento analitico. L’analisi è tutta immanente al testo; la critica è anche trascendente rispetto al testo (nel senso che parla anche, in altro modo, di quello di cui “parla” il testo stesso). Il principale quadro referenziale dell’analisi filmica è costituito dalla teoria cinematografica (in particolare, come abbiamo già detto, quella di derivazione semiologica), mentre il principale quadro referenziale della critica filmica è costituito dall’estetica cinematografica. Ovviamente va
Tenuto presente che la teoria cinematografica e l’estetica cinematografica sono sì due campi di ricerca e di riflessione distinti, ma che si influenzano reciprocamente.
Nell’analisi prevale l’oggettività (tanto l’oggettività del testo analizzato, quanto l’oggettività dell’esposizione analitica). Nella critica prevale la soggettività di chi interpreta e giudica il film: l’interpretazione e la formulazione di un giudizio (un giudizio di valore) sono le principali funzioni della critica. Si potrebbe dire, con termini un po’ metaforici, che l’analisi è fredda e la critica è – o dovrebbe essere – calda.
L’analisi è necessaria ma non sufficiente. La critica, pur senza pretendere all’esaustività, può anche porsi come relativamente definitiva, nel senso che, attraverso l’enunciazione degli esiti interpretativi e attraverso la motivata formulazione di un giudizio di valore, può, in un certo senso, finire, chiudere, il proprio discorso, comunicando così l’esperienza fatta dal critico stesso nel suo rapporto con il testo filmico, o meglio, in questo caso, con l’opera filmica. La critica, molto più dell’analisi, mette in luce la personalità del critico – e in proposito si può ricordare quello che diceva Oscar Wilde, cioè che fare critica “è anche un modo particolare, e nobile, di fare dell’autobiografia”. Si deve inoltre aggiungere che saltare completamente l’analisi testuale può essere pericoloso e fuorviante, in quanto può comportare incomprensioni e fraintendimenti del film, e quindi la caduta nel soggettivismo critico più esasperato e meno rispettoso della peculiarità dell’opera criticata, che viene così giudicata erroneamente. Ma rinunciare alla critica (alla vera critica) può comportare conseguenze persino più gravi, prima tra tutte il restare fuori dal circuito comunicativo pubblico, con la conseguente rinuncia a intervenire correttamente nell’ambito socio-culturale (il che sarebbe anche indice di diserzione intellettuale e morale).
L’analisi del film può essere molto produttiva, può dimostrare una notevole utilità: un’utilità che risulta tanto maggiore quanto più l’analisi è accompagnata dalla consapevolezza, oltre che dei propri mezzi, dei propri limiti, e non occulta l’esigenza di andare oltre, cioè di entrare nell’area delle esegesi e delle valutazioni propriamente critiche. Per indicare la sostanziale differenza tra l’analisi del film e la critica del film, si può dire, in modo forse approssimativo ma almeno tendenzialmente esatto, che la prima ha come principale oggetto della propria indagine il linguaggio cinematografico (cioè studia e comunica come il linguaggio cinematografico risulta impiegato in un singolo film), mentre la seconda ha come principale oggetto del proprio operato il discorso cinematografico (cioè entra nel merito e commenta quello che il film dice per come lo dice, giungendo quindi a motivare un giudizio che riguarda, insieme, il contenuto e la forma del film stesso, appunto la sua speciale sostanza discorsiva). Affermando questo si sostiene che l’analisi testuale non arriva completamente, pur introducendola e avvicinandosi, alla critica del film; critica che come proprio compito prioritario ha appunto quello di esaminare, evidenziare, commentare, insomma interpretare e giudicare il discorso del film, in cui è rintracciabile, sempre, un’implicazione ideologico-culturale e, a volte, anche un valore estetico. Insistendo sulle differenze tra l’analisi e la critica, si può inoltre affermare che l’analisi è più strumentale e la critica più finalistica; e quindi presumere che l’analisi, pur avendo una propria specifica funzione e propri specifici metodi operativi, può anche essere sussunta, inglobata propedeuticamente, dalla critica.
Dopo queste distinzioni, che vanno comunque considerate con una certa flessibilità, possiamo concludere le osservazioni sull’analisi del testo filmico, considerandola ora in rapporto e in funzione della critica del film. L’analisi del testo filmico si può esercitare in più modi e in più direzioni: ripercorrendo punto per punto lo svolgimento del film; oppure isolando un segmento particolare per indagarlo in profondità; oppure mettendo a confronto le costanti e le varianti di un testo filmico rintracciabili nelle sue soluzioni espressive e comunicative, cioè nell’organizzazione interna dello stesso testo, che è conseguente alle scelte fatte impiegando il linguaggio cinematografico. Non solo: specialmente quando il film è dotato di qualità artistiche, quando è stilisticamente innovativo, quando è esteticamente ricco, l’analisi del testo diventa – proprio come l’analisi freudiana – “interminabile” (e in questi casi, a maggior ragione, anche la critica diventa interminabile).
Ma alla critica – che poi è la cosa che più interessa, non solo a chi fa il critico cinematografico di professione, ma pure a qualsiasi spettatore che di fronte ai film vuole porsi come un interlocutore attivo, vuole capire e rispondere criticamente, vuole arrivare a un giudizio personale ben consapevole e ben articolato – competono altri compiti, cioè competono un altro percorso conoscitivo, un altro tipo di motivazioni e di argomentazioni, un’altra apertura culturale e sociale. La critica, proprio per pervenire a una valutazione estetica e ideologica del film, dovrebbe ora manifestare un altro approccio e rispondere ad altre esigenze, tra cui, non ultima, quella di rivelare il gusto, la poetica, l’ideologia del critico stesso. Ma soprattutto la critica dovrebbe prendere in esame, capire e discutere, assieme agli aspetti autonomi del film, quelli cioè che gli danno distinzione e specificità espressiva, anche i suoi aspetti eteronomi. Che sono le fonti ispirative, le sollecitazioni culturali esterne, i riferimenti, espliciti o impliciti, alla realtà storico-sociale. Detto in altri termini, la critica dovrebbe anche mettere in relazione il testo filmico con il (suo) contesto, e vedere come interagiscono. Questo è un momento fondamentale ed estremamente qualificante dell’attività critica, e pertanto merita alcune riflessioni, anche per chiarire che cosa può essere rubricato sotto la nozione di contesto.
Abbiamo detto che l’analisi consente di verificare come è composto, organizzato, formalizzato il testo filmico, ovvero, come si articola, all’interno del film, il linguaggio cinematografico; ma l’analisi non porta alla valutazione, non dice se il film è bello o brutto, se è culturalmente ricco o povero, cioè se quello che dice, proprio per come lo dice, è originale, convincente, stimolante. In particolare, l’analisi, fermandosi alla perlustrazione del testo, restandone sempre all’interno, non mette in relazione il testo stesso con il contesto. Mentre la critica, invece, non fa riferimento solo agli aspetti immanenti, agli aspetti autonomi, del testo filmico, ma anche ai suoi aspetti eteronomi che il testo stesso chiama in causa con riferimenti espliciti o impliciti. La critica, appunto, deve anche individuare e discutere i nessi esistenti tra il testo e il contesto, scorgere le loro reciproche influenze, vedere come si manifestano nel film a livello espressivo e comunicativo, e anche come possono poi prolungarsi nel sociale. L’interpretazione e la valutazione dei rapporti intercorrenti tra testo e contesto è un momento di primaria importanza dell’attività critica, anche in considerazione della grande importanza che ha il cinema al di là dell’ambito strettamente cinematografico, e pertanto è opportuno spendere qualche parola per focalizzare la nozione di contesto, per individuarne le connotazioni specifiche.
E’ necessario cercare di definire bene quello che si intende per contesto, proprio per affrontare meglio la questione dei rapporti tra testo e contesto, la cui identificazione e valutazione – è bene ripeterlo – è un momento essenziale dell’attività critica. Cercando di svolgere un discorso soltanto teorico, o meglio, metodologico, proviamo dunque a vedere come si articolano i rapporti tra testo e contesto. Mettere in relazione l’interno del testo filmico con il suo esterno, significa indagare (scoprire) non solo il prima ma anche il dopo della realizzazione del film stesso. Si tratta di un’operazione critica che consente di recuperare, sempre nel rispetto dell’aseità semantica dell’opera filmica, la sua dinamica collocazione nel mondo. Per essere ancor più chiari, diciamo che la critica cinematografica dovrebbe manifestare sempre un duplice “sguardo”, un duplice, complementare, atteggiamento: dovrebbe risultare critica del dentro del film, e quindi del suo linguaggio e in particolare della sua elaborazione stilistica e formale; e insieme dovrebbe risultare critica del fuori del film, ma solo di quel fuori che ha condizionato o che viene richiamato dai significati del film stesso, dalla sua forza referenziale. Per meglio mettere a fuoco la dialettica testo/contesto, e nello stesso tempo per ipotizzare una prassi critica che tenga sempre e prioritariamente conto della specificità del cinema e del linguaggio filmico, è forse opportuno, a questo punto, svolgere alcune considerazioni su ciò che si può intendere con il termine contesto.
Per prima cosa, crediamo che sia più congruo e chiarificatore prospettare, anziché un unico e omogeneo contesto, un insieme di contesti. (Poi possiamo anche considerare questo insieme di contesti come il contesto generale, ma ciò non è importante, dato che il problema non è terminologico ma concettuale). Dunque ipotizziamo un insieme di contesti tra di loro correlati e interagenti, e che, appunto nel loro costituirsi anche come un insieme, formano quello che abitualmente viene chiamato, al singolare, il contesto.
Spesso, nella terminologia corrente, in una accezione influenzata dal pensiero marxista, si identifica il contesto con la struttura economico-sociale, mentre i prodotti della creazione e del pensiero (tra cui quindi anche i film) formerebbero, in via derivata, la sovrastruttura. Ma questa impostazione, questa distinzione, che pure ha un solido fondamento teorico, comporta un doppio rischio: quello di considerare la struttura (e quindi il contesto) come un tutto unitario, trascurando le distinzioni interne, che ci sono, e sono importanti; e quello di considerare le diverse componenti della sovrastruttura (quindi anche le opere cinematografiche), come puri effetti, la cui causa è sempre la struttura, la base economico-sociale. Cioè si corre il rischio di sottovalutare, per colpa di un meccanicismo sociologico che riduce tutto al rapporto causa-effetto, gli aspetti autonomi, innovativi, assolutamente singolari delle opere artistiche, cioè proprio gli aspetti che rendono l’opera d’arte unica, diversa, irripetibile, e che le conferiscono la sua specifica identità e il suo principale valore. La produzione, la creazione di un’opera d’arte è sempre produzione, creazione di un particolare “mondo”; è un dipiù rispetto a quanto già preesisteva: non è soltanto il riflesso o il prolungamento del mondo preesistente, è un qualcosa di assolutamente nuovo, di assolutamente differente che trova le proprie ragioni e le proprie giustificazioni soprattutto in se stessa, nella sua originalità creativa ed espressiva, nella sua specificità formale. Non solo: specialmente quando si tratta di un’opera davvero grande, pienamente risolta sul piano estetico, spinge a vedere in modo nuovo il mondo preesistente e quanto vi appartiene (quindi anche l’arte preesistente).
Ma affrontiamo i diversi contesti il cui insieme configura, sempre in presenza di un gioco di interconnessioni, il contesto generale. Si può immaginare, come soluzione grafica della definizione che cerchiamo di enucleare, un disegno raffigurante quattro cerchi concentrici. Il centro comune ai quattro cerchi rappresenta ogni volta il singolo film, che è unico – è un prototipo -, che è individualizzato per le sue specificità espressive e comunicative, e a volte artistiche. E che manifesta sempre una propria autonomia, che è soprattutto un’autonomia di tipo semantico.
Il primo cerchio, il più piccolo, rappresenta il contesto cinematografico, cioè il contesto costituito dal cinema già realizzato, dall’industria cinematografica, dall’arte e dalla cultura cinematografica, dalle teorie cinematografiche, dalle mode cinematografiche, insomma da tutto il background cinematografico da cui ha preso le mosse l’autore (o gli autori) del film.
Il secondo cerchio rappresenta il contesto culturale, cioè il contesto costituito dalla cultura nel senso più ampio del termine, che riguarda i più diversi campi culturali (l’artistico, il filosofico, quello delle scienze umane, ecc.) e che, anche in questo caso, denota il background culturale dell’autore o degli autori. (L’esempio più facile è quello di un film tratto da un’opera letteraria: appare immediatamente chiaro, il suo rapporto, oltre che con il cinema, con la cultura letteraria).
Ma in linea generale si può dire che ogni film è sempre influenzato e dal cinema preesistente e dalla cultura preesistente; e che poi, a sua volta, può influenzare e il cinema e la cultura. I primi due contesti non necessitano di particolari spiegazioni: è tutto molto evidente; semmai si può osservare, ma anche questo è abbastanza evidente, che il contesto cinematografico è a sua volta contestualizzato dal contesto culturale (il cinema è parte della cultura), e che entrambi si influenzano reciprocamente. E anticipiamo subito – come peraltro già suggerisce l’immagine dei quattro cerchi concentrici – che entrambi i contesti, quello cinematografico e quello culturale, sono a loro volta contestualizzati dagli altri due contesti; e che tra tutti i contesti ci sono reciproche influenze e inferenze.
Il terzo contesto (quindi, graficamente, il terzo cerchio) è il contesto della società di massa; e questo contesto va comunque distinto dal quarto contesto, cioè il contesto storico-sociale, anche se per molti aspetti è integrato e al limite può apparire coincidente con quest’ultimo. Ma crediamo che convenga tenerli distinti, almeno sul piano teorico, proprio perché, in rapporto al cinema e ai singoli film, funzionano in maniera diversa. Il contesto storico-sociale è dunque il contesto che comprende gli altri tre (il cerchio più grande che racchiude gli altri tre cerchi).
Non sono necessarie molte parole per dire cosa si intende con contesto storico-sociale: si tratta della società attuale (coeva alla realizzazione del film) nella sua totalità, così come si è venuta a configurare al termine del suo divenire storico, termine sempre momentaneo, sempre legato al presente. Per esempio, il contesto storico-sociale di un film italiano girato nel 1938 è la società italiana di quell’anno, quindi una società governata dal regime fascista, che aveva un’economia capitalistica mista (privata e pubblica), un’industria non ancora molto sviluppata, una società in cui l’agricoltura aveva ancora un peso rilevante, e in cui la mancanza di democrazia limitava o impediva, tra l’altro, la libertà d’espressione, ecc, ecc. Si può aggiungere, come ulteriore considerazione, che ogni film è sempre, nasce sempre nella storia (quindi può essere esaminato in senso diacronico, appunto nella prospettiva storica), e al contempo è sempre nella società, nella sua società coeva, e quindi consente anche una lettura sincronica, nel doppio senso della sua specifica composizione semantica e del suo legame con il (suo) presente.
Qualche parola in più, invece, può essere spesa a proposito del contesto costituito dalla società di massa, che, ripetiamo, non va considerato coincidente o assimilato al contesto storico-sociale, pur avendo con questo una pluralità di nessi. La società di massa non è dunque la base materiale comune a ogni società contemporanea storicamente determinata, anche se poggia su questa base materiale, ne è condizionata e insieme la condiziona. La società di massa, nata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, e via via sempre più consolidatasi come tale, manifesta diversi connotati peculiari che attengono alla sua formazione, al suo funzionamento e ai suoi effetti sulle dinamiche sociali. Detto in estrema sintesi, la società di massa – che principalmente è un portato della rivoluzione industriale, e in particolare della seconda rivoluzione industriale – si caratterizza soprattutto per il ruolo protagonistico (anche se è un ruolo più passivo che attivo) che svolgono le masse: si pensi, solo per fare un esempio, al suffragio universale. Altri dati caratteristici, tipici, della società di massa sono: la progressiva prevalenza della città sulla campagna; la sempre maggiore predominanza e facilità delle comunicazioni; la tendenziale uniformità dei comportamenti (l’ubbidienza alle mode); la propensione, sempre più spinta, al consumismo; l’estensione e il livellamento culturale. Ora, è evidente quanto tutto questo abbia a che fare con l’economia, con la politica, e insomma con la storia, ma anche, per ritornare al centro del discorso che avevamo avviato, con il cinema e con i film (e oggi con l’audiovisivo in generale).
Abbiamo già detto che il cinema era stato definito da Adorno, più di cinquanta anni fa, “il medium per eccellenza dell’industria culturale”; ma l’industria culturale è una derivazione e insieme una concausa del formarsi delle società di massa. L’industria culturale che produce prevalentemente cultura di massa per un pubblico di massa potrebbe essere considerata, per molti versi, l’immagine speculare, e anche, in un certo senso, l’ideologia, della società di massa. Basti pensare all’uso propagandistico che hanno fatto le dittature di ogni colore della radio e del cinema per indottrinare le masse. Ma anche nelle democrazie, più o meno realizzate, il potere politico e quello economico tendono sempre a controllare il più possibile i mass media per creare e conservare il consenso. Tutto ciò rimanda, ancora una volta, al rapporto testo/contesto, che dopo questo breve excursus possiamo ora considerare come uno e quadruplice: contesto cinematografico, contesto culturale, contesto della società di massa e contesto storico-sociale.
Nello svolgimento dell’attività critica, i contesti vanno pensati, vanno ripresi, in una duplice direzione. Da un lato, vanno considerati come sommatoria dei condizionamenti, degli imprestiti, dei riferimenti voluti (e magari anche inconsci), che hanno accompagnato la genesi e la realizzazione del film. Dall’altro lato, vanno considerati come reticolo referenziale della “lettura” del film stesso, cioè come componenti della griglia interpretativa e valutativa adottata per criticare il film. I contesti agiscono prima, ma sono anche agiti dopo, nel testo filmico e nella sua ricezione. Ripercorrere il movimento che dal contesto, uno e quadruplice, va al film e poi dal film ritorna al contesto, è un’attività critica che non implica un riduzionismo sociologistico del film stesso, non riduce, cioè, l’opera filmica a un mero documento privandola delle sue qualità formali specifiche. Al contrario, significa mettere in rapporto l’autonomia (autonomia semantica, autonomia estetica) dell’opera filmica con la sua eteronomia, ovvero significa indagare e discutere le diverse influenze che l’opera stessa riceve o procura nei diversi contesti.
Tutto ciò, naturalmente, è possibile soltanto se si riesce a cogliere, nel pieno rispetto dell’unicità espressiva e comunicativa dell’opera stessa, le interferenze e le rifrazioni riscontrabili nel rapporto testo/contesto, avendo sempre la preoccupazione di non forzare o distorcere o strumentalizzare il testo per parlare surrettiziamente del contesto.
Cercare una produttività reciproca tra l’interno del film (cioè il suo linguaggio, la sua elaborazione formale) e l’esterno del film stesso (cioè i suoi contesti) è una necessità costitutiva, non solo per l’autore – che del resto lo fa sempre, anche se non sempre con una piena consapevolezza – ma anche per il critico (e per lo spettatore attivo), il quale deve saper coniugare giudizi di fatto e giudizi di valore.
D’altronde, uno dei parametri per misurare la validità artistica e conoscitiva di un film è proprio quello della verifica di come e quanto i diversi contesti vengono espressi nella forma cinematografica. Inoltre, valutare un film anche in relazione ai suoi contesti, permette di capire se e in che misura è emancipato dall’industria culturale pur facendone parte, pur essendone un prodotto. E questo perché i film che manifestano maggiormente questa felice contraddizione, cioè che rivelano tensione creativa e invenzione “linguistica”, in contrasto con gli imperativi della ripetitività, della serialità, della banalizzazione (gli imperativi tipici dell’industria culturale), ebbene questi film sono quelli che dimostrano anche maggiore capacità di rappresentare, in modo veritiero e critico, i contesti cui in vari modi si rapportano.
Quanto detto sinora circa l’analisi e la critica del film consente di trarre le prime conclusioni. L’analisi del film, prima, e la critica del film poi, o meglio ancora, l’analisi e la critica del film coniugate insieme devono farsi guidare da un duplice convincimento: che il testo filmico va sempre rispettato, cioè accostato, studiato, decifrato, giudicato per quello che è, per il suo specifico statuto espressivo, per la sua unicità semantica. Quando si critica un film, ma anche più semplicemente quando lo si guarda, bisognerebbe sempre avere in mente una frase pronunciata da Godard in un suo film dove, interpretando se stesso, commentava una scena del suo stesso film mentre lo “passava” in moviola: “Queste non solo le immagini di una realtà, sono la realtà di queste immagini”. In sostanza voleva dire che non si deve fare confusione tra la cosa rappresentata e la rappresentazione della cosa; e criticare in modo corretto un film significa, in primo luogo, tener conto dei suoi modi di rappresentazione, del suo linguaggio, del suo stile, della sua forma peculiare. L’altro convincimento che dovrebbe essere sempre seguito nell’esercitare la critica cinematografica, lo si può dichiarare riprendendo quanto ha detto una volta Pasolini parlando, non da letterato o da regista, ma proprio da semiologo del cinema. In un saggio in cui intendeva elaborare una propria teoria del linguaggio cinematografico, Pasolini ha scritto che “il cinema non si spiega soltanto con il cinema”, volendo significare che il discorso filmico trascende l’ambito strettamente cinematografico, si rapporta anche ad altro del cinema.
Ecco, muovendo da questi convincimenti sintetizzati con le parole di Godard e di Pasolini, possiamo dire che la critica cinematografica dovrebbe funzionare, ad un tempo, come un discorso specialistico, settoriale, tutto concentrato sull’oggetto criticato (il cinema, il film), e come un discorso su quello di cui il cinema (il film) “dice” nel suo modo specifico, configurandosi, in tal modo, anche come produzione di cultura.
La critica, cioè, mentre parla di un oggetto specifico con una competenza specifica, mentre analizza e critica un film, finisce per parlare anche del mondo che il film stesso chiama in causa: proprio perché scopre, verifica e discute i rapporti testo/contesto.
Il discorso della critica, soprattutto quando riguarda un film artisticamente sostanziato, se vuole restare all’altezza del suo oggetto a confrontarsi con tutto ciò che l’opera filmica contiene e rivela, deve dunque farsi, oltre che discorso cinematografico, discorso culturale, ricorrendo pertanto a tutti i registri ermeneutici e assiologici atti a riferire in modo adeguato quello che la stessa opera filmica comunica nel suo codice speciale. Si viene così a giocare una partita a tre tra l’opera, il critico e il mondo. Più il critico penetra nell’opera, più ne evidenzia ciò che la rende unica e diversa, meglio evidenzia la propria soggettività, meglio manifesta anche se stesso, proprio perché necessariamente parla – con le proprie idee e con il proprio linguaggio – del mondo espresso nell’opera stessa.
Si dice giustamente, da Hegel in poi, che nelle opere artistiche la forma è sempre la “forma di un determinato contenuto”, e, sempre giustamente, lo stesso Hegel sosteneva, senza sottintendere alcuna dicotomia tra forma e contenuto, anzi presupponendo sempre la loro unità, che ai fini della validità dell’opera, e quindi anche ai fini della formulazione di un giudizio di valore, è il contenuto ad avere maggiore importanza, ad assumere la funzione prioritaria. Ma il contenuto è appunto il mondo, precisamente quella parte di mondo colta e prodotta dalla sensibilità estetica e dal vigore creativo dell’artista. Nel caso del cinema, è il regista che con il suo “sguardo”, con i suoi modi espressivi, crea l’opera filmica, e con l’opera filmica “un mondo” che, appunto, tocca poi al critico interpretare, capire, discutere.
Sempre con riferimento alla critica cinematografica, può essere utile accennare ad altri suoi aspetti considerandola ora, non tanto sotto il profilo delle sue applicazioni e delle sue modalità di approccio al film, quanto piuttosto alla sua specifica natura e alle capacità che deve prima acquisire e poi praticare chi la pratica, non solo il critico cinematografico, ma anche lo spettatore che vuole acquisire la capacità di assumere un’attitudine critica. Per avviare un discorso così orientato si può proporre, ancora una volta, una definizione di carattere molto generale: la critica è una facoltà umana. Questo significa che ognuno di noi ha, almeno potenzialmente, la possibilità di formulare un giudizio su qualcosa.
Nel nostro caso l’oggetto della critica è il cinema o, più frequentemente, i film. Essendo la critica una facoltà umana, una delle tante, può essere molto o poco sviluppata; e crediamo di essere d’accordo con tutti nel ritenerla una facoltà importante, che va salvaguardata e potenziata; una facoltà che qualifica e arricchisce intellettualmente e umanamente chi sa esercitarla bene.
Lo spirito critico è un valore, una componente essenziale della cultura: quanto più e quanto meglio viene esercitato, tanto più e tanto meglio favorisce l’emancipazione del singolo e della società.
Restringiamo ora il campo d’osservazione soltanto alla critica cinematografica, considerandola quindi unicamente per quello che è nella sua dimensione sociale, vale a dire una specializzazione e una professione. La critica cinematografica si manifesta, si esercita, in forme diverse e in luoghi diversi: può esprimersi sotto forma di recensione su un giornale, o di saggio su una rivista specializzata, o di libro (ad es., un testo universitario). La critica cinematografica può rispondere a tipologie diverse: per fermarsi alle due più correnti, più note, può essere critica militante o critica accademica. La critica cinematografica può avvalersi di una o più metodologie critiche, e a seconda dei metodi cui fa riferimento e di cui si avvale (appunto quando intende qualificarsi anche attraverso l’applicazione di un metodo, privilegiato perché ritenuto più valido ed efficace) può distinguersi, al proprio interno, in critica storico-materialistica, o sociologica, o stilistica, o psicanalitica, o formalistica, ecc. La critica è anche, fattualmente, un discorso (in genere un discorso scritto) su qualche cosa (in genere un oggetto artistico, nel nostro caso il cinema, o un aspetto del cinema o, molto più normalmente, un singolo film). Senza assumere intenzioni e toni aprioristicamente pedagogici, la critica cinematografica dovrebbe tuttavia implicare tra le proprie funzioni anche quella formativa, ad esempio dovrebbe far comprendere la differenza che c’è tra il guardare e il vedere, ovvero tra una visione passiva e una visione attiva dell’opera filmica.
Per fare critica cinematografica occorre dunque avere gli strumenti discorsivi e le necessarie conoscenze del campo cinematografico, e dei singoli fenomeni che compongono questo campo, e che appunto costituiscono gli oggetti della critica: dunque al critico cinematografico occorre una competenza specifica. E’ ovvio che per fare critica cinematografica, e per farla bene, con spirito di pertinenza e forza esplicativa, bisogna conoscere bene il cinema. Se non si conosce bene il cinema non si può criticare in modo appropriato e approfondito un film. Si può, al massimo, esibire il proprio gusto personale dicendo questo film mi è piaciuto o non mi è piaciuto, ma non si articola un vero e proprio discorso critico. Chi vuole esercitare bene la critica cinematografica deve dunque, per prima cosa, studiare il cinema, conoscere in modo approfondito l’oggetto dei propri discorsi. Ma poiché la critica cinematografica fa parte, come la critica letteraria o teatrale o musicale o pittorica, della critica artistica, occorre sì studiare e conoscere il cinema e, in modo ancor più circostanziato, l’arte e la cultura cinematografica; ma occorre anche, e contestualmente, studiare e conoscere l’arte in generale: in ciò che la differenzia da tutte le altre attività umane, nel suo manifestarsi come atto creativo e come esperienza estetica, e nel suo costituirsi come ambito particolare della cultura. Insomma, il critico cinematografico davvero preparato deve possedere un sapere molto ampio, deve avere un retroterra culturale molto ricco. Non dovrebbe aver letto soltanto i “libri sacri” sul cinema, quelli di Eisenstein, di Bazin, di Metz e via elencando; ma dovrebbe aver letto anche, e solo per limitarci al Novecento, teorici dell’arte e studiosi di estetica quali, tra i tanti che si potrebbe citare, Lukàcs e Adorno, Croce e Della Volpe, Benjamin e Barthes, i quali, peraltro, si sono anche occupati, chi più chi meno, del cinema, che non a caso è stato anche definito “l’arte del Novecento”. Ugualmente, deve conoscere e frequentare, almeno in una certa misura, la letteratura, il teatro, e anche la musica e la pittura, non solo per accrescere la proprie conoscenze e le proprie esperienze estetiche, ma anche perché queste discipline artistiche hanno rapporti plurimi con il cinema. I critici cinematografici seri devono avere una formazione accurata che si accompagna a una vocazione coltivata. Senza uno spontaneo “amore per il cinema” e senza una cultura, che però non deve essere solo cinematografica, non si dà critico cinematografico capace di scrivere delle valide recensioni, e tanto meno dei saggi o dei libri; quindi neppure capace di stabilisce un dialogo produttivo con il lettore (il quale, spesso, è anche, almeno potenzialmente, lo spettatore cinematografico).
Come già abbiamo anticipato, l’attività di critico cinematografico richiede competenze diverse, e su questo punto crediamo che bisogna insistere proprio per la pluralità di ambiti conoscitivi che il cinema può investire e, di conseguenza, per le sollecitazioni critiche che può determinare. Per esempio: il cinema si presenta anche come un fenomeno sociologico rilevante, poiché rappresenta e, implicitamente o esplicitamente, propone modelli di comportamento, stili di vita, “valori” (intesi appunto in senso sociologico e non assiologico). In proposito si può citare un episodio molto probante, molto indicativo della potenza del cinema, della sua incidenza sul costume e sui comportamenti individuali e collettivi. Nel film di Capra Accadde una notte (1934) c’è una scena in cui si vede il protagonista (Clark Gable) che si toglie la camicia e si infila il pigiama sul torace nudo prima di andare a letto; ebbene, l’anno dopo la vendita delle canottiere negli Stati Uniti risultò diminuita del 50 per cento.
Oltre che con la sociologia e con il costume, il cinema ha molto a che fare con la psicologia. La visione di un film, infatti, provoca nello spettatore anche reazioni psicologiche e affettive: i cosiddetti processi di “identificazione” (identificazione degli spettatori con gli eroi interpretati dagli attori e delle spettatrici direttamente con le attrici preferite) e di “proiezione” (l’“io” dello spettatore coinvolto nel flusso delle immagini filmiche).
E ancora: si pensi per un attimo al fenomeno del divismo, che appunto investe e aspetti sociologici e aspetti psicologici: se Clark Gable non fosse stato un divo famoso che abitualmente incarnava il mito della virilità non sarebbe stato imitato in quella maniera e in quella misura. Tutto questo per dire che il critico cinematografico deve farsi anche, in certo qual modo, esperto di sociologia ed esperto di psicologia: cioè deve acquisire una conoscenza di queste due discipline, che come abbiamo visto riguardano pure il campo della sua attività, per quel tanto che possa servire a precisare e ad arricchire questa stessa attività. Insomma, bisogna sempre tenere ben presente che l’attività del critico cinematografico è, endemicamente, un’attività interdisciplinare.
Ancora in via preliminare, possiamo ora riferirci alla critica cinematografica prendendo maggiormente in considerazione le sue pratiche e i suoi possibili riflessi sociali, continuando a ricordare che la sua attività è interna alla società di massa e alla cultura di massa e concerne un settore – il cinema – che è parte costitutiva della società di massa e della cultura di massa. Al riguardo, e per anticipare quali dovrebbero essere le conseguenze di un’efficace attività critica, possiamo avanzare un’altra definizione, o meglio, proporre una finalità da perseguire: un’efficace attività critica dovrebbe aumentare le capacità dei lettori-spettatori di entrare in contatto attivo-creativo, cioè consapevole, libero, critico con l’opera filmica. Detto altrimenti, un’efficace attività critica dovrebbe portare i lettori-spettatori ad affrancarsi sempre più dai condizionamenti più o meno occulti imposti dall’industria cinematografica intesa come componente essenziale dell’industria culturale; condizionamenti che consistono nell’assuefazione agli stereotipi, nell’inclinazione verso le storie più banali ed evasive, nell’accettazione acritica dei “messaggi comportamentistici” contenuti, più o meno scopertamente, nei film, nel farsi catturare, per dirla con Adorno, dal “piacere della frustrazione” che deriva dal sentirsi, inconfessatamente, del tutto diversi, e inferiori, rispetto agli “eroi” e alle “eroine” dello schermo. La critica, insomma, dovrebbe anche servire a sviluppare le facoltà critiche di chi la legge, evitando che ciò comporti una sottovalutazione dei doveri puramente informativi della critica stessa.
La critica cinematografica, inoltre, non dovrebbe consistere solo nella critica dei film, ma dovrebbe manifestarsi anche come critica del cinema, proprio perché il cinema e i film formano un’endiadi, si accompagnano sempre, si condizionano reciprocamente, sono costantemente in rapporto dialettico. Critica del cinema significa conoscenza e discussione della macchina cinematografica e del suo funzionamento, e implica il giudizio sugli apparati produttivi, sui modelli organizzativi, sui modi di socializzazione dei film, per vedere, in primo luogo, se ubbidiscono a pure logiche di profitto o se, invece, corrispondono anche a istanze intellettuali, se servono anche a soddisfare la domanda culturale, presente o latente, nel pubblico (nella società).
Il critico cinematografico, pertanto, dovrebbe avere una propria idea di cinema che comprenda, assieme a una posizione estetico-culturale, una posizione socio-politica. Non solo: la soggettività del critico – quindi il suo gusto (estetico), la sua concezione artistica, la sua ideologia, la sua cultura – dovrebbe confrontarsi, nella scrittura critica, con le idee dominanti veicolate dal cinema dominante, così come, di volta in volta, dovrebbe confrontarsi, sempre nella scrittura critica, con i singoli film che, rispetto al cinema dominante, possono risultare allineati oppure discordanti.
Ancora a questo proposito, si deve osservare, anche se può sembrare scontato, che la qualità della scrittura critica può funzionare come un valore aggiunto, che serve a rendere più convincenti le valutazioni del critico, a conferirgli più capacità persuasiva e più autorevolezza: la responsabilità semantica non compete soltanto agli artisti, ma anche – sia pure in forme diverse – ai critici, inclusi beninteso quelli cinematografici. Peraltro il critico cinematografico, senza staccarsi dalla coscienza del suo ruolo sociale e senza rinunciare a dichiarare i propri orientamenti e le proprie preferenze, dovrebbe sempre lasciar trasparire nei suoi discorsi che i film, mentre costituiscono uno spazio sociale, partecipano e alimentano un universo simbolico. E questo comporta che la “lettura” di un film, e specialmente se si tratta di un film molto elaborato sul piano del linguaggio, di un film che vuole manifestare anche una finalizzazione artistica, non è un’operazione semplice, non è frutto di un rapporto spontaneo e immediato con il film stesso, ma è un’operazione che, lo diciamo per l’ultima volta, richiede una preparazione accurata, una formazione culturale, e soprattutto una sensibilità estetica, dato che criticare l’arte, e l’arte cinematografica non fa certo eccezione, comporta non soltanto un capire ma anche un sentire. Comporta, appunto, la capacità di acquisire e di comunicare ciò che Pasolini chiamava il “sentimento della forma”.